L’armonia che può salvare o uccidere
Cultura greca I miti eroici assegnano al sacro dono del suono un potere contraddittorio: Massimo Raffa, Il tessuto delle Muse, InSchibboleth
Cultura greca I miti eroici assegnano al sacro dono del suono un potere contraddittorio: Massimo Raffa, Il tessuto delle Muse, InSchibboleth
I miti eroici assegnano alla musica un duplice e contraddittorio potere. La pratica di quella che i Greci chiamavano «arte delle Muse» (mousiké) – un «dono sacro» per i mortali, con riferimento non semplicemente al suono ma anche alla parola poetica e alla danza – senza dubbio determinava una più stretta vicinanza tra gli esseri umani e la dimensione divina, ma non fu mai un atto scevro di rischi. Poteva assolvere a una funzione formativa, catartica, secondo quanto teorizzato da Aristotele, presentandosi al contempo con una rovinosa capacità di fascinazione, tale da annichilire la ragione e stravolgere l’identità umana. Proprio intorno ai poli opposti della razionalità e della follia, ma anche dell’armonia e del caos, dell’adesione alle regole e della loro trasgressione, si articolano le belle riflessioni e i racconti musicali trascelti da Massimo Raffa in un volumetto che inaugura la collana «La lira di Orfeo», diretta da Graziana Brescia: Il tessuto delle Muse Musica e mito nel mondo classico (prefazione di Mario Lentano, InSchibboleth, pp. 206, € 14,00).
A essere chiamato in causa tra i primi è un mito che sancisce la funzione ordinatrice connessa all’esercizio della musica (capitolo III «Musica che costruisce: Anfione e Zeto»). Anfione, figlio di Zeus e della mortale Antiope, se ne servì al tempo in cui andava edificando, insieme al fratello Zeto, la città di Tebe. In quell’occasione, al suono del suo strumento a corde e al canto della sua voce, i macigni sparsi lungo i declivi del monte Citerone, si mossero da soli e come soldati si disposero in forma di una possente cinta muraria, percorsa da sette porte, tante quante erano le corde della sua cetra. Una musica civilizzatrice, insomma, capace di governare persino le pietre che diventano animate e «accorrono insieme, attirate dal canto e ascoltano e diventano muro», stando a un’evocativa descrizione che ne fa Filostrato Maggiore (Pinacoteca, 1.10).
Questa antica immagine della fondazione di Tebe, si delinea nel segno di una concezione della musica del tutto positiva e di una rappresentazione dell’eroe Anfione come del più strenuo difensore della sua utilità. Non è un caso, precisa Raffa, che a tramandarla in questi termini sia il poeta ellenistico Apollonio Rodio, che all’arte delle Muse si rivolgeva con fiducia e dalla posizione privilegiata di chi era a capo della Biblioteca di una delle più fiorenti città del Mediterraneo, Alessandria d’Egitto. Altri autori, in tempi e luoghi meno felici, avrebbero guardato alla stessa città con pessimismo, scegliendo di valorizzare non la consonanza musicale, con cui tutto ebbe inizio, ma il caos disarmonico della fine. Nel dramma frammentario Ipsipile, di Euripide, e nel Seneca tragico de Le Fenicie, incombe su Tebe la funesta lotta dei discendenti di Edipo, come anche ne I sette contro Tebe, dove più che mai l’universo sonoro della città subisce un totale rovesciamento in negativo: nel disordine provocato dalla lotta fratricida, le grida disumane e i macabri frastuoni della guerra, trasfigurati dall’immaginario poetico di Eschilo, si accordano tra loro in un paradossale concerto di fiati. «Le mie mura sono state innalzate al suono di una lira e al suono di un flauto sono crollate», si può leggere in un epigramma dell’Antologia Palatina (9.216), dove a parlare è la stessa città personificata. Ma perché proprio il flauto è chiamato a rappresentare tutto il male della famigerata Tebe?
Nella contrapposizione tra le due diverse tipologie di dispositivi (a corda e a fiato) si rileva il modo del tutto peculiare con cui gli antichi hanno considerato la musica. Con dotto – ma sempre limpido – argomentare, Raffa fa notare (cap. II «Pelli, fiati, corde: Ermes, Apollo, Atena, Marsia») che gli strumenti a percussione e gli aerofoni derivano da pratiche del corpo stesso, usato come produttore di suoni: come quando si battono le mani sulle cosce o sulla cassa toracica, come quando il respiro diventa voce o canto. Diversamente si dovrà ipotizzare per i cordofoni, per i quali è plausibile, invece, un’origine dall’arco e, dunque, dalla tecnica: usato di giorno come arma da caccia e da battaglia e poi pizzicato la sera, per dare ritmo alle storie raccontate intorno al fuoco. Ulisse lo farà risuonare terribilmente prima di usarlo per uccidere i proci. La natura da un lato e l’abilità tecnica e l’inventiva umana dall’altro. Almeno, così è per la cultura greca che stabilisce un’irreversibile gerarchia, volta a dare la preminenza ai cordofoni e a relegare le sonorità degli altri strumenti alla sfera istintuale. Per il fatto di scaturire dal respiro, il suono del flauto «è l’atto più viscerale e fisico che si possa immaginare», precisa Raffa, puro suono che non consente il linguaggio articolato e che fa pendere lo strumento sul versante della natura incontrollabile e dell’irrazionale (a–logos). Non è un caso che, sotto il segno di questa precisa sonorità, fosse annoverata la voce più perturbante fra quelle che risuonavano nella fonosfera del mito: la voce delle Sirene, priva di qualsivoglia misura e pericolosamente destabilizzante.
La riprova di tutto ciò proviene dal mito di un suonatore irriverente: Marsia, che ha l’ardire di sfidare Apollo in una gara musicale. Il satiro contende con il doppio flauto, il dio con la cetra: cosa che gli consente di esibire non una ma due abilità – nel canto oltre che nell’esecuzione del suo strumento – e di conquistare una schiacciante vittoria, alla quale segue la scorticazione di Marsia. La pura vocalità contro la parola cantata, la dismisura di uno strumento dionisiaco contro la normatività di quello apollineo. Ben oltre la dimensione mitica, la disfatta del povero satiro può essere letta come emblematica di alcune questioni realmente dibattute durante l’età classica, in merito alle forme di intrattenimento più gradite e attuate negli agoni poetico–musicali.
Come intrattenimento del tutto privato, invece, il canto con l’accompagnamento della lira è praticato dal migliore degli Achei (cap. VI «Musica virtuosa per signori: l(’)ira di Achille»). Quando Fenice, Ulisse e Aiace Telamonio si recano alla tenda di Achille, per convincerlo a deporre l’ira e a tornare in battaglia, lo trovano intento a cantare «gesta d’eroi» alla presenza dell’amato Patroclo che, tuttavia, non appare come il destinatario dell’esecuzione. Il guerriero, che di giorno non combatte più, non ha certo bisogno di momenti d’evasione e non cerca di distrarsi dal contesto bellicoso. Serrato nel suo ricovero notturno e cantore solo per se stesso, Achille trova, piuttosto, grazie alla mediazione della musica, il modo di riavvicinarsi alle uniche cose che rendono la sua esistenza degna di essere vissuta: le imprese e le azioni gloriose.
Tra le figure convocate dall’autore non poteva mancare Orfeo, un mito vivente che mai ha smesso di essere rinarrato, nelle forme più svariate, e al quale è affidato l’epilogo del saggio. Sono molte le facce che è possibile riconoscere in questo eroe musicale, spesso contrastanti tra loro: lo sposo e cittadino esemplare e il trasgressore dell’ordine cosmico, il valoroso visitatore degli Inferi e il codardo che non accetta la morte, il teologo e l’inventore dell’omoerotismo maschile. Il lettore lo seguirà nel corso di un avvincente duello a suon di cetra contro le Sirene (o meglio sarebbe dire, nel caso specifico, a suon di rumore), per ritrovarsi, infine, al cospetto della drammatica sconfitta del cantore. Le donne di Tracia, armate degli strumenti bacchici, neutralizzano l’ultima esecuzione musicale di Orfeo e lo colpiscono a morte con dei sassi. La scena è in parte simile a quella di Anfione: Orfeo è un incantatore capace di governare con la sua musica il vento e gli alberi, il buio e la luce, le creature alate, le bestie feroci e le pietre che, infatti, pur essendo state scagliate contro di lui rimangono per un istante sospese in aria e «avvinte» dalla voce e dalla lira, così da cadere «supplici» ai suoi piedi, (per dirla con le parole di Ovidio, Metamorfosi, 11.10 ss.). Sarà l’azione delle donne, tuttavia, ad avere la meglio: il clamore delle tibie e dei tamburelli, di battimani e di ululati sovrasta la seducente melodia, che non riesce più a farsi sentire. I sassi si macchiano del sangue del cantore.
Il corpo di Orfeo è smembrato, non diversamente da come le Baccanti fanno con Penteo, salvo scoprire, nelle ultime pagine, che la testa cantante del più celebre dei musici sopravvivrà anche a questo.
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