L’arma geopolitica del petrolio
Mentre il crollo del prezzo del petrolio mette alle corde la Russia che, già in crisi per le sanzioni Usa/Ue, vede retringersi gli sbocchi delle sue esportazioni energetiche, gli Stati […]
Mentre il crollo del prezzo del petrolio mette alle corde la Russia che, già in crisi per le sanzioni Usa/Ue, vede retringersi gli sbocchi delle sue esportazioni energetiche, gli Stati […]
Mentre il crollo del prezzo del petrolio mette alle corde la Russia che, già in crisi per le sanzioni Usa/Ue, vede retringersi gli sbocchi delle sue esportazioni energetiche, gli Stati uniti stanno divenendo il maggiore produttore mondiale di greggio, spiazzando l’Arabia Saudita, e saranno presto non solo autosufficienti ma in grado di fornire all’Unione europea petrolio e gas in abbondanza e a buon mercato. Questa la narrazione diffusa dai media. Cerchiamo di riscriverla in base alla realtà, partendo dall’interrogativo: perché sta calando il prezzo del petrolio?
Il calo è dovuto non solo a fattori economici, come il rallentamento della domanda mondiale, ma a fattori geopolitici. Anzitutto la decisione dell’Arabia Saudita, maggiore esportatore petrolifero mondiale prima della Russia, di mantenere alta la produzione così che, crescendo l’offerta, diminuisca il prezzo del greggio.
Che interesse ha l’Arabia Saudita a effettuare tale manovra, che rischia di ridurre i suoi stessi introiti petroliferi? Quello di colpire altri paesi esportatori di petrolio, soprattutto Russia, Iran e Venezuela. Riyadh può permettersi tale manovra poiché i costi di estrazione del greggio saudita sono tra i più bassi al mondo, 5-6 dollari al barile, mentre estrarre un barile di petrolio dal Mare del Nord, ad esempio, costa oltre 26 dollari. L’idea che la manovra di Riyadh sia diretta anche contro gli Stati uniti, dove è iniziato il boom del petrolio da scisti, non è fondata. Sia perché gli Usa continuano a importare petrolio saudita, la cui qualità è adatta alle loro raffinerie, mentre il petrolio da scisti va a sostituire quello prima importato da Nigeria, Angola e Algeria. Sia perché la manovra sul petrolio è stata concordata da Washington con Riyadh in base alla strategia mirante anzitutto a indebolire e isolare la Russia. In tale quadro si inserisce il boom del petrolio e gas estratto, negli Usa, da scisti bituminosi con la tecnica della fratturazione idraulica, ossia della frantumazione delle rocce in strati profondi con acqua a pressione contenente sostanze chimiche. Tale tecnica è molto costosa: secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, estrarre petrolio da scisti costa 50-100 dollari al barile, a confronto dei 10 dollari al barile del petrolio mediorientale.
Secondo gli esperti, l’estrazione da scisti conviene economicamente se il prezzo internazionale del petrolio resta al di sopra dei 70 dollari al barile. Da giugno, invece, esso è sceso del 40% a circa 60 dollari e può ulteriormente calare. Come è possibile allora che il boom prosegua? Per il fatto che negli Usa lo Stato destina miliardi di dollari di incentivi a questo settore, in cui sono impegnate in genere piccole compagnie petrolifere. Significativo è che le maggiori compagnie se ne tengano fuori, anche perché i giacimenti sfruttati con la tecnica della fratturazione si esauriscono molto prima di quelli convenzionali.
C’è poi da considerare che tale tecnica provoca danni ambientali gravissimi, il cui costo ricade sulle comunità locali. Molte si oppongono, anche se con scarsi risultati, all’uso del proprio territorio per l’estrazione di petrolio e gas da scisti. Il boom petrolifero Usa è dunque spinto dai fini geopolitici di Washington: da un lato colpire la Russia e altri paesi, dall’altro far sì che gli alleati europei sostituiscano alle forniture energetiche russe quelle statunitensi. In realtà gli Usa, i maggiori importatori mondiali di greggio, non potrebbero fornire all’Europa il loro petrolio e gas naturale alle quantità e ai prezzi di quelli russi. Un vero e proprio bluff del «poker americano» della guerra.
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