L’Argentina con Macri deve ancora piangere
America Latina I neoliberisti tornano in due paesi chiave dell’America latina e c’è chi parla di fine del ciclo progressista, festeggia la fine dei «populismi» e proclama la morte delle utopie e l’inutilità di opporsi al libero mercato
America Latina I neoliberisti tornano in due paesi chiave dell’America latina e c’è chi parla di fine del ciclo progressista, festeggia la fine dei «populismi» e proclama la morte delle utopie e l’inutilità di opporsi al libero mercato
Dopo le sconfitte elettorali in Argentina e in Venezuela alcuni analisti si sono affrettati a parlare della fine del ciclo latinoamericano. Chi declama la fine dice che non ci sono alternative, che è inutile opporsi al libero mercato, al mondo unipolare guidato dai potenti. Si festeggia la fine dei “populismi” e si riempiono le pagine descrivendo la morte delle utopie spiegando che ogni opposizione popolare è ingenua, sprovveduta e sarà inevitabilmente sconfitta. Tutto questo non è altro che la costruzione di una realtà di comodo da parte dei think tank. Loro vorrebbero la fine della storia e riuscire ad imporre il monologo del mercato come unico attore del destino dell’umanità.
È però evidente che anche se l’idea della ciclicità è solo un credo che pretende anticipare la storia, i governi progressisti in America latina si trovano in difficoltà. Ci sono varie situazioni in bilico che si dovranno sviluppare nei prossimi mesi. L’elezione di Mauricio Macri in Argentina e la sconfitta del chavismo nelle elezioni parlamentari in Venezuela segnano un passo indietro nelle alleanze tra diversi progetti alternativi al neoliberismo nella regione. Non è facile far rientrare le diverse esperienze in atto nelle categorie teoriche che abbiamo a disposizione, forse non è corretta la definizione classica di “sinistre” al governo, si tratta piuttosto, di un laboratorio di politiche costruite dopo gli anni ’90 del secolo scorso, anni in cui il neoliberismo ha impoverito l’intera regione. Forse non rientrano nelle nostre categorie, ma sono risposte in campo per far fronte all’omologazione della legge del mercato.
Il caso emblematico resta l’Argentina, non solo per l’importanza economica e culturale del Paese, ma anche perché ha segnato passi decisivi per l’intera regione: è stata l’ultima dittatura militare insediata negli anni ’70; è stata insieme al Cile di Pinochet, il primo laboratorio dove Milton Friedman ha messo alla prova le teorie monetariste; ha dovuto subire una delle dittature più cruente con la strategia della desaparición e migliaia di morti; è stato il Paese che, applicando alla lettera per anni i precetti neoliberisti, è arrivato nel 2001 al fallimento economico e politico; il default preparò il terreno alla nascita di movimenti e governi alternativi in America Latina. Succede che ora, dopo i tre governi Kirchner, che hanno portato il paese fuori dalla crisi degli anni ’90, il nuovo governo di Macri vuole ristabilire le politiche neoliberiste.
Il ritorno al decalogo monetarista che guida la globalizzazione significa anche una riattivazione delle politiche dell’esclusione. A poche settimane del suo insediamento, il governo Macri ha dato chiara prova di quali sono le sue idee e come intende attuarle. La modalità decisionista e autoritaria si è espressa attraverso una valanga di decreti legge che hanno demolito di un colpo molte norme e istituzioni contrarie alla loro ideologia.
Approfittando della chiusura estiva del Parlamento (in Argentina questo è il periodo delle ferie, gennaio è simile all’agosto italiano), il nuovo presidente ha preso importanti decisioni senza discutere con nessuno. Una procedura che ha sollevato critiche perfino all’interno di Cambiemos, la sua stessa coalizione. Macri non ha chiamato il Parlamento a sedute straordinarie, richiesta più volte avanzata dall’opposizione, ha preferito iniziare il suo mandato con una prova di muscoli. Eduardo Galeano aveva coniato un termine: la democradura, un governo democratico che agisce come una dittatura.
Benché il sistema presidenziale consenta al potere esecutivo un discreto margine di manovra, Macri ha superato ogni limite ponendosi in più occasioni al di sopra delle leggi. Tre secoli fa, Montesquieu lo avrebbe definito un despota. Gli esempi sono quotidiani e possono far pensare ad una sistematica provocazione per indurre l’opposizione a perdere la calma e arrivare allo scontro.
In campo economico si sta “costruendo la crisi” in modo tale che si rendano poi necessarie misure drastiche e urgenti.
Il neo ministro di Economia Alfonso Prat Gay, cresciuto nella JP Morgan Chase & Co di Londra, ha deciso di eliminare tutti gli indicatori statistici dell’Indec (l’Istat argentino) adducendo che il governo precedente era intervenuto nell’istituto manipolando le statistiche. La risposta del nuovo governo allora è ancora più comoda, sospendiamo a tempo indeterminato le misurazioni. In questo modo potranno nascondere i risultati delle politiche regressive che favoriscono i grandi capitali e gruppi monopolistici, la svalutazione della moneta, l’eliminazione delle tasse per le esportazioni di grano, e più in generale la riduzione della spesa pubblica. Si dirà che la colpa è del governo precedente, che siamo di fronte ad una crisi profonda che richiede misure radicali, cioè, un golpe economico.
Il punto di convergenza più alto delle forze progressiste della regione si è registrato nel 2005 nel vertice di Mar del Plata, quando per la prima volta dopo decenni, l’America Latina ha rifiutato la proposta di George Bush di creare un’area di libero scambio dall’Alaska alla Terra del Fuoco. Il no all’ Alca (il Trattato di libero scambio delle Americhe) fu la piattaforma di lancio per procedere alla messa in pratica delle politiche post neoliberiste. Per una volta la pressione del grande fratello del nord uscì sconfitta dall’unità latinoamericana.
Non tutti però la pensano nello stesso modo, i governi di destra ci sono e non sono una novità. Il Messico, con il Nafta, l’accordo di libero scambio con gli Usa e il Canada, con i suoi 20 anni, ha avuto come risultato quello di essere praticamente l’unico paese del continente che non è riuscito, in questo periodo, a ridurre la povertà e la disuguaglianza. Stessa cosa si dica per il Perù, che di solito viene presentato come un paese di successo, con un’importante crescita del Pil, ma questa ricchezza si traduce in benefici per pochi e nessun miglioramento per molti. La popolazione perde fiducia e ai governanti crolla il consenso. È così che nel Perù, di fronte al fallimento di Ollanta Humala, le previsioni danno come possibile vincitore nelle prossime elezioni di aprile 2016 la figlia di Fujimori, l’ex presidente, ora in carcere per corruzione. Anche le aspettative su Sebastián Piñera in Cile erano durate poco, si era presentato come un rinnovatore della destra ma si è scontrato subito con la protesta popolare a cui non ha saputo dare risposta.
I governi progressisti sono invece riusciti a diminuire la disuguaglianza, la povertà e la miseria, quando il resto del pianeta registra più distanza tra ricchi e indigenti. Lo Stato ha cercato di recuperare il suo ruolo contrastando i grandi gruppi monopolistici e ampliando le forme di partecipazione popolare. Se si osserva il passato e il contesto internazionale si può dire che l’America Latina rimane oggi, in prevalenza, un isola felice in un mondo martoriato da guerre e conflitti. È quindi opportuno capire il perché l’elettorato del Venezuela e dell’Argentina ha votato contro queste politiche. Occorre aprire il dibattito, fare autocritiche e ripartire dalla difesa delle grandi conquiste di questi ultimi anni.
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