Cultura

L’archivio come fonte ribelle

L’archivio come fonte ribelleAida Muluneh, «Star Shine Moon Glow, Water Life» 2018, commissioned by Water Aid

Arte in black «A World in Common: Contemporary African Photography», la mostra alla Tate Modern di Londra visitabile fino al 14 gennaio 2024

Pubblicato circa un anno faEdizione del 14 luglio 2023

«Non puoi realizzare un cambiamento fondamentale senza una certa dose di follia. In questo caso viene dall’anticonformismo, dal coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule, dal coraggio di inventare il futuro». Citare le parole di Thomas Sankara è un incipit cardinale per Osei Bonsu, curatore insieme a Jess Baxter e Genevieve Barton di A World in Common: Contemporary African Photography alla Tate Modern di Londra (fino al 14 gennaio 2024).

A World in Common, installation view Tate Modern Londra (ph Manuela De Leonardis)

IL «MONDO IN COMUNE» a cui si riferisce il titolo di questa prima mostra che l’importante complesso museale britannico dedica alla fotografia africana è ispirato anche dal «sogno comune di una vita equilibrata e armoniosa intrisa di significato» di cui parla il filosofo e umanista senegalese Felwine Sarr in Afrotopia (2019). Un viaggio nella conoscenza, quindi, in cui la macchina fotografica è lo strumento per creare o saldare nuove e vecchie relazioni. A riscrivere la «road map» sono 36 artiste e artisti, in parte della diaspora o legati alla cultura africana – tra loro Malala Andrialavidrazana, Sammy Baloji, James Barnor, Edson Chagas, Hassan Hajjaj, Lebohang Kganye, Kiluanji Kia Henda, François-Xavier Gbré, Aida Muluneh, Wura-Natasha Ogunji, Zohra Opoku – che tracciano paesaggi reali e metaforici.
Identità, spiritualità e tradizione, l’archivio come contro-narrazione e futuri immaginati sono i tre capitoli intorno a cui si sviluppano le diverse narrazioni che dall’epoca precoloniale e coloniale, seguendo un processo di acquisizione di una consapevolezza collettiva che si arricchisce con il contributo di queste artiste e artisti appartenenti a diverse generazioni, porta alla decostruzione di un immaginario stereotipato, in buona parte veicolato dal colonialismo e all’affermazione di un’identità che si confronta con le criticità socio-politiche, economiche e climatiche dei nostri tempi. All’arte il ruolo di tradurne le istanze in una chiave simbolica fuori dagli schemi.

Edson Chagas, Tipo Passe, Pablo P. Mebla, 2014. Courtesy The artist and Apalazzo Gallery

IL RITRATTO (di studio o meno) è la formula più diretta a cui è demandata la riappropriazione di un’identità spesso negata, come nella serie Nigerian Monarchs (2012-22) che George Osodi ha realizzato attraversando il proprio paese alla ricerca di figure reali che governano i territori di cui gli inglesi definirono confini precedentemente inesistenti. Avvolta nella sua lunga «agbada» ricamata, la regina Hajiya Ahmedu Magajia siede nel villaggio musulmano di Kumbwada, nel nord del paese, l’unico dove da secoli vige il matriarcato. Lo stesso orgoglio si legge nei volti di uomini, donne e bambini che Lazhar Mansouri immortala tra gli anni ’50 e ’70 nel solito angolo del suo studio nel villaggio di Aïn Beïda nella provincia di Oum el-Bouaghi in Algeria o quelli della comunità queer nella provincia rurale sudafricana di Mpumalanga (ex Eastern Transvaal) realizzati da Sabelo Mlangeni tra il 2003 e il 2009.
Otto fotografie in bianco e nero della serie Country Girls sono entrate nella collezione di Tate Modern, implementando una raccolta nutrita che include tra le altre opere The Black Photo Album / Look At Me (1997) di Santu Mofokeng, proiezione di 80 fotografie provenienti da nove nuclei familiari del Sudafrica, scattate tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, che mostrano la popolazione nera in posa in stile vittoriano. «Sono la prova del colonialismo mentale o sono servite a sfidare le immagini prevalenti dell’‘africano’ nel mondo occidentale?», si chiede Mofokeng. L’anti-archivio passa anche per il lavoro The Lost Chapter: Nampula, 1963 (2016) dell’angolano Délio Jasse che interviene sulle foto trovate in un mercato delle pulci di Lisbona dell’album di una famiglia portoghese vissuta in Mozambico negli anni ’60, con le sue dinamiche completamente scollate dalla vita del paese.
In queste foto, i neri appaiono come sporadiche comparse in un’enclave di europei bianchi alle prese con un tenore di vita che ricalca quello europeo. All’artista-archivista il ruolo di riempire le lacune di una memoria che è familiare e collettiva dando «veridicità» alle immagini stesse attraverso la timbratura. Un’ottica in cui opera analogamente Ndidi Diki nell’installazione A History of a City in a Box, esposta anche alla Lagos Biennial 2019, dove il volume dei faldoni chiusi o aperti con il loro contenuto di documenti e fotografie ricorda l’orizzonte urbano di Lagos, la più grande città della Nigeria, svelando una verità che per l’artista è lampante: l’informazione è potere.

Wura Natasha Ogunji, Will I still carry water when I am a dead woman, 2013 Photo Credit Ema Edosio

LA RELIGIONE ha la stessa forza, anche quando è legata alla spiritualità sufi come nel polittico Students and Teachers (2012) della serie M-eating dell’italo-senegalese Maïmouna Guerresi in cui si fa riferimento alla «basmala» Bi-smi’ llahi al-Rahmani al-Rahimi con cui si aprono quasi tutte le sure del Corano. Una formula che contiene anche un significato esoterico e si riflette nel dialogo silenzioso dei protagonisti riuniti intorno a un tavolo in cui la presenza di oggetti come bossoli o una tanica di benzina alludono ad una continua tensione emotiva e fisica.
Una spiritualità al femminile pure quella messa in scena da Khadija Mohammadou Saye, l’artista anglo-ghanese che nel 2017 ha esposto alla Biennale di Venezia, perita nello stesso anno a 24 anni nell’incendio della Grenfell Tower a West London.

INDOSSANDO GLI ABITI di sua madre, nella serie In this space we breath (2017) è lei stessa a dare corpo a un’esplorazione psicologica della trascendenza attraverso una gestualità rafforzata dagli oggetti rituali. Queste sue immagini evanescenti sono state prodotte ricorrendo all’antica tecnica della ferrotipia. Proseguendo attraverso le diverse declinazioni di una narrativa che intercetta dalle maschere rituali ai paesaggi urbani si arriva all’epilogo, lì dove la presenza di foreste e oceani mettono a confronto storie di migrazioni antiche e contemporanee in cui il blu è più scuro della notte.
Nella video proiezione In Praise of Still Boys (2021) l’artista Julianknxx narra attraverso la voce materna una vicenda biografica – quando a nove anni, a causa della guerra civile, fu costretto a lasciare la Sierra Leone per trasferirsi a Londra – accogliendo in essa anche storie più vecchie, per lo più tramandate oralmente che arrivano da lontano. «Non sto raccontando una storia dell’Africa occidentale, ma globale», afferma

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