Cultura

L’ape che punge i sogni

L’ape che punge i sogniIllustrazione di Fabiano Negrin

Scaffale A cent’anni dalla morte di Giuseppe Pitrè, Donzelli torna sulla sua figura di studioso. E presenta le storie siciliane che si erano aggiunte alle trecento leggende popolari pubblicate in un corpus di quattro volumi nel 1875

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 29 aprile 2016

La parola che affiora alle labbra andando a curiosare nella vita e nell’opera di Giuseppe Pitrè è «miracoloso», anche se si ha una fiducia grande nelle forze naturali dell’uomo.
Questo leggendario studioso palermitano (1841-1916), nato in una famiglia di marinai o di pescatori, svolgeva la professione di medico e con quella si era guadagnato la fama di amico dei poveri. Sembra che fosse amatissimo dai suoi concittadini, tanto che gli venne proposta più volte la carica di sindaco, che lui rifiutò benché sedette nel Consiglio comunale, e per meriti fu infine nominato senatore del Regno. I motivi di queste onorificenze si devono tanto alla sua compassione quanto alla dedizione nello studio e nella tutela della cultura siciliana, soprattutto quella popolare. Per la maggior parte si deve a lui, e alla collaborazione con Salomone Marino (1847-1916), compagno di ricerche e cofondatore dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» nel 1882, la conoscenza del patrimonio immateriale siciliano, così come si manifestò in quei cinquant’anni circa di indagini, dal 1870 fino alla Grande Guerra. E a lui si deve pure la conservazione del patrimonio materiale, dato che nel 1909 fondò un museo con i millecinquecento oggetti che aveva collezionato.

La comunità senza più segreti
Non si può proprio tralasciare di menzionare alcune sue opere di storico e di linguista, come la Grammatica siciliana (1875), importante documento sulle varietà dialettali siciliane, o La vita in Palermo cento e più anni fa (1902), saggio amabilissimo nel quale racconta, e si potrebbe dire fotografa, le abitudini sociali della comunità palermitana.
Ma la sua opera maggiore sono i venticinque volumi della Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, che raccoglie documenti e studi di ogni tipo riguardanti la demografia, il folklore, la cultura popolare, l’etnologia. Canti, poesia e versificazioni, fiabe e racconti, proverbi, spettacoli e feste, giochi dei bambini, usanze (tra cui l’analisi dei comportamenti mafiosi), credenze e superstizioni, rimedi medici popolari, indovinelli e scioglilingua, feste patronali, leggende, motti, pasquinate, tradizioni domestiche e familiari. Migliaia e migliaia di trascrizioni dalla cultura orale, con la scrupolosa annotazione di modalità, luoghi, fonti del prelievo, e con chiose comparative, non solo tra diverse versioni locali ma anche con quelle italiane ed europee. E poi saggi e studi, suoi e di altri. La mole di documentazione prodotta non ha quasi paragoni con altre attività simili. Per tutto questo lascito intellettuale ed editoriale, Pitrè si meritò due Edizioni nazionali delle opere, che permisero l’edizione di lavori rimasti inediti; una presieduta da Giovanni Gentile e dalla figlia Maria Pitrè, prevista in cinquanta volumi, e un’altra istituita nel 1985 e portata avanti fino al 2007 dal Centro internazionale di etnostoria, organizzata in sessanta tomi.

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Giuseppe Pitrè

Una parte ragguardevole del repertorio della Biblioteca – cinque volumi – era già di per sé il risultato di un incredibile lavoro di trascrizione della narrazione orale del popolo siciliano. Pitrè, anche con l’aiuto di corrispondenti, aveva setacciato nei tre angoli dell’isola un mondo destinato alla silenziosa scomparsa e al rapido cambiamento; e da questa ricerca emergeva, selezionata, una vasta gamma di storie, che aveva raggruppato per tipologie e argomenti. Un tesoretto di narrazioni che non era mai stato tradotto in italiano in modo integrale, finché l’editore Donzelli e la Fondazione Sicilia non si sono incaricati dell’impresa. Già nel 2013 erano stati presentati i quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari e ora, proprio a cento anni dalla morte di Pitrè, esce il volume di Fiabe e leggende popolari siciliane (pp. XLVI-916, euro 45).
La traduzione, lo sottolinea Giovanni Puglisi nella prefazione, rende finalmente accessibile e condivisibile, sia in Italia sia all’estero, questo patrimonio narrativo. E la resa, curata da Bianca Lazzaro, risulta brillante ed efficace; forse perché estremamente fedele al lessico e rispettosa dell’ordito sintattico, è capace di riportare la lingua siciliana scelta da Pitrè a un italiano mediano e vario. Che è certamente quello di oggi e che tuttavia non indulge mai in forme gergali, tipiche del linguaggio dei grandi mezzi di comunicazione, forse l’insidia e la trappola più facile in cui inciampare. La lettura scorre piana e disinvolta, e il testo originale a fronte facilita chi volesse provare la lettura del siciliano.

Come spiega Jack Zipes in una nota introduttiva al volume, Pitrè aveva ridotto la varietà delle parlate dell’isola al palermitano dell’epoca. Lo studioso ascoltava e faceva ascoltare, trascriveva e faceva trascrivere i racconti di un ventaglio largo e socialmente diversificato di voci. Non solo di «vergini di istruzione», come  Pitrè stesso chiama gli analfabeti, ma anche di persone istruite; e, a volte, da fonti scritte. Bellissima la sua introduzione, e chiarissima nel dichiarare un indirizzo che si potrebbe definire sociolinguistico: come esiste una differenza profonda tra scritto e parlato, nella cultura orale è presente la stessa differenza tra il dire domestico e il raccontato. Quella del racconto è una lingua particolare rispetto alla versione quotidiana, così come il narrare costituisce un momento speciale della vita, per quanto possa essere frequente. Un’altra distinzione che suggerisce, senza però approfondire, è quella tra «raccontatori» e «novellaie», come se il genere portasse con sé un repertorio o forse uno stile. Fiabe incantate, storie di santi, racconti morali, novelle, racconti di fondazione di luoghi e monumenti, storie di animali, narrazioni che spiegano come si siano prodotti proverbi o modi di dire. Nelle sei serie che ordinano le leggende si trova di tutto, per grandi e piccini, per insipienti e per dotti, e qualsiasi tentativo di sintesi non può che rivelarsi parziale.

Quel tesoro di gatto
Bellissima, ed esercitando questa arbitrarietà si potrebbe dire la più bella di tutte, è la storia 135. Due contadini se ne stanno stesi su un campo, uno dorme l’altro è sveglio. Questi vede uscire dal naso del compagno un’ape, che dopo un bel po’ vede rientrare nella narice. Quando l’altro si sveglia, racconta di aver sognato di essersene andato in giro; al che il primo, senza dire nulla, si convince che l’ape sia la mente dell’amico. Purtroppo nessuna spiegazione accompagna questo raccontino, intensamente visionario e poetico, che forse dà conto (non poteva essere altrimenti) di un’espressione comune che riguarda il vagare del pensiero.
La 156, intitolata La birbunazza!, è un’incredibile fiaba circolare che presenta una figura con una funzione narrativa ben conosciuta: il gatto che porta ricchezza, una sorta di variante del gatto con gli stivali. Il carattere di fiaba è dato anche dalla immotivazione degli ingranaggi narrativi, che rendono quasi impossibile una vera sintesi. Tutto parte da un gatto che di nascosto si mangia una minestra; per colpa sua, una bella fanciulla, la birbantona, entrerà in una vicenda che nei suoi vari episodi può risolversi nel bene o nel male, e che solo la sottile astuzia della ragazza, non priva di cinismo e crudeltà, farà superare, finché lo stesso felino non aiuterà la fanciulla a procurarsi una grande ricchezza che le permetterà di sposare il re.

Magnifico il gruppo di racconti dedicati alla nascita di modi di dire, di motti e proverbi. Ricorda la giornata sesta del Decameron, in cui i novellatori hanno a tema i motti sagaci, e che in qualche modo poteva aver influenzato i criteri di ordinamento di Pitrè. In fondo, è sempre racconto orale la materia delle due raccolte. E cattura come un mistero la narrazione che ha la funzione di spiegare il linguaggio. Fa precipitare l’immagine di Sancho Panza del Don Quijote, che parlava solo per proverbi. Fa turbinare l’idea di un effetto comico che circola nei vari gesti narrativi. E associato al paragone istintivo con il libro eccezionale di Giambattista Basile, che da autore compose Lo Cunto de li Cunti, ci si può anche accorgere quanto sia labile la frontiera tra la grande letteratura e la narrazione popolare. Ma presi in questa vertigine, sta già girando a tutti la testa.

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