L’antidoto migliore a paura e solitudine? Gli spazi culturali
PATRIMONIO Marta Ragozzino, direttrice regionale dei musei della Campania e della Basilicata replica all’annuncio della prossima chiusura. «Abbiamo ripensato il sistema di visita e inventato con buon senso e la massima cautela i nuovi percorsi». «I beni culturali più importanti che dobbiamo conservare nei musei sono le persone che in questi luoghi devono potersi sentire "a casa". Grandi e piccole case della cultura»
PATRIMONIO Marta Ragozzino, direttrice regionale dei musei della Campania e della Basilicata replica all’annuncio della prossima chiusura. «Abbiamo ripensato il sistema di visita e inventato con buon senso e la massima cautela i nuovi percorsi». «I beni culturali più importanti che dobbiamo conservare nei musei sono le persone che in questi luoghi devono potersi sentire "a casa". Grandi e piccole case della cultura»
Con il nuovo Dpcm, musei, mostre e gallerie d’arte ripiomberanno nell’«invisibilità». Fra le misure di contenimento annunciate c’è infatti anche lo stop di ogni evento culturale. La cultura, settore che – come i cinema, i teatri e le sale da concerto – aveva appena ripreso un po’ di respiro, è costretta a richiudere, accumunata concettualmente a sale Bingo e centri commerciali come fosse un «giardino» di perdizione o assembramento scomposto. Sparisce ancora, dopo una ripartenza difficoltosa (secondo il rapporto Federculture dall’emergenza Covid molti enti culturali hanno perso il 40%, qualcuno anche il 70%: nel caso dei musei, questa flessione rischia di vanificare vent’anni di crescita e numeri positivi che riguardano la fruizione del patrimonio), costellata di sforzi sovrumani e buoni propositi. Bisogna comunque ricordare che nei musei e nelle gallerie si passeggiava in sicurezza e con un distanziamento quasi siderale.
Marta Ragozzino, direttrice regionale dei musei della Campania e della Basilicata (sono circa quaranta in tutto), non è stata del tutto colta di sorpresa dalla decisione legata al nuovo lockdown. Non poteva che aspettarselo, dopo l’oscuramento di schermi, i sigilli ai palcoscenici e il silenziamento della musica.
I musei sono destinati a tornare al buio. Come era andata la ripartenza? E cosa si era imparato dal primo confinamento?
Per quanto sofferta, la motivazione credo sia quella di diminuire al massimo la mobilità e circoscrivere le occasioni di socialità allo stretto indispensabile. Sostanzialmente si reputa più sicuro rimanere a casa, riducendo anche al minimo la presenza negli uffici. È molto triste chiudere di nuovo. Apparentemente è facile, basta tirarsi dietro la porta, non serve neppure fare una buona comunicazione, tra poche ore lo sapranno tutti. Sarà molto più difficile riaprire tutte le strutture, come è già accaduto questa primavera. In realtà, i musei non si chiudono davvero, all’interno restano «aperti», con i servizi essenziali e le persone che si occupano delle attività scientifiche che si alternano, se non hanno problemi di fragilità particolari. Ma i musei vivono se sono animati, se vengono attraversati, se possono essere raccontati, se sanno ancora ascoltare: i beni culturali più importanti che dobbiamo conservare nei musei sono le persone che in questi luoghi devono potersi sentire «a casa». Grandi e piccole case della cultura. Da febbraio guido, tra Campania e Basilicata, due direzioni regionali che, complessivamente, comprendono circa 40 musei e luoghi della cultura, due dei quali sono diventati autonomi e stanno per essere consegnati ai nuovi direttori. Con un lavoro di squadra interregionale eccezionale siamo riusciti a riaprirli tutti, in maniera cauta, progressiva, graduale: identificando e seguendo precisi protocolli di sicurezza. Era fondamentale farlo, serviva a riavvicinare la comunità ai presidi culturali, che spesso sono anche presidi sociali, punti di riferimento preziosi. Nel primo lockdown abbiamo imparato quanto ci manchi la presenza, quanto le attività, anche quelle banali, di cura e condivisione. Quanto ci manchi condividere gli spazi e i tempi della vita del museo. Abbiamo anche imparato a raccontare i patrimoni in maniera diversa, e alcuni di noi si sono dedicati alla comunicazione sociale, all’ideazione di nuovi contenuti, di giochi, di strumenti per mantenere teso e forte il legame con una comunità museale che è anche molto cresciuta a distanza.
Qual è la strada possibile per un ripensamento della fruizione museale?
Noi abbiamo rapidamente ripensato il sistema di visita, abbiamo seguito le indicazioni e inventato, d’accordo con i nostri referenti tecnici, con semplicità e buon senso ma sempre con la massima cautela, i nuovi percorsi. Abbiamo investito in distanziamento e sanificazioni, ci siamo dotati di dispenser igienizzanti, termoscanner e misuratori della temperatura, abbiamo modificato la segnaletica, misurato la capienza, i ritmi delle visite, la tipologia dell’areazione. Lo abbiamo fatto anche nella Grotta azzurra di Capri non solo a Palazzo Reale di Napoli o a Palazzo Lanfranchi di Matera: si entrava con l’obbligo di mascherina e senza rischi. Dovevamo tornare accessibili e volevamo farlo in totale sicurezza, consapevoli che i luoghi della cultura sono, spesso, quelli nei quali si può ricucire un patto sociale, anche tra generazioni, dove si può coltivare, insieme benché a distanza, la conoscenza e la condivisione. Questi luoghi i sono i migliori antidoti contro la paura, la solitudine e la violenza. Questa pandemia sta facendo esplodere contraddizioni già presenti nel nostro sistema, ci sta mettendo tutti alla prova, senza darci la possibilità di scegliere i tempi e i modi. Chiudere, sanificare, tracciare i contagi, tenere le persone a casa, prendere decisioni difficili senza avere il tempo di ponderare i pro e i contro. Pensando al bene comune. Spesso il nostro racconto passa in secondo piano, e dobbiamo inevitabilmente sacrificare programmazioni e eventi. Credo che sia importantissimo comprendere che non si tornerà alla normalità di prima, grazie alla nostra capacità di adattamento o al vaccino che prima o poi arriverà. Qualcosa è cambiato e ha messo in luce i limiti del nostro modo di vivere e di sentire «di prima». Dobbiamo saperne tenere conto, imparare qualcosa da questo disastro, in termini di autodeterminazione, pensiero critico, capacità di elaborare e riunificare le lacerazioni sociali. Anche la cultura può servire, per parte sua, per rimediare alle diseguaglianze che dividono la nostra società.
I musei e i loro contenuti artistici, storici scientifici, possono «alleviare» in qualche modo la rarefazione della socialità e risarcire i più giovani della perdita della scuola?
Ne sono convinta. Abbiamo offerto alle scuole e alle università di venire nei musei a fare lezione, a svolgere la didattica in presenza. La presenza, lo stare assieme (pur se a distanza e con la mascherina), è fondamentale. Ora, per qualche settimana, non potremo più. Sono a Napoli da febbraio, ci sono persone con cui lavoro quasi quotidianamente alle quali non ho mai stretto la mano, con cui non mi sono scambiata un abbraccio. Questa cosa è spaventosa, insopportabile. Se fossi un’artista la metterei al centro della mia ricerca. Mancano i contatti fisici, i gesti, non vediamo neppure i nostri sorrisi. È terribile, dentro e fuori dai musei. Il rischio è abituarsi. Dobbiamo resistere, esercitare una convinta obsistenza.
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