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L’antica lenticchia fra terremoto e cocci

L’antica lenticchia fra terremoto e cocci

Storie La lenticchia di Castelluccio, lo zafferano di Cascia, il farro antico di Monteleone. L’Umbria terremotata riparte dal cibo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 9 agosto 2018

La lenticchia dell’altipiano di Castelluccio, come lo zafferano di Cascia e il farro antico di Monteleone di Spoleto, sono il paracadute degli agricoltori di fronte alla crisi economica che colpisce altre colture di montagna, come pascoli, orzo, erba medica. La resa per ettaro è modesta – dai 2 agli 8 quintali – ma si guadagna in modo dignitoso. A patto che la vendita sia il più possibile diretta, in azienda o grazie ai mercati dei produttori»: questo spiegava anni fa la Coldiretti.

Il terremoto del 2016 che ha ridotto in macerie il borgo – e la zona e molte altre – ha scosso anche i produttori del legume, così antiche che i suoi semi sono stati rinvenuti anche in tombe del 3.000 a.C. Eppure, proprio produzioni tipiche come queste sono importanti nella ricostruzione socioeconomica dell’area. Spiega Paolo Peroni, responsabile della Coldiretti di Norcia (il sindacato agricolo associa la maggior parte delle aziende produttrici del legume): «Grazie all’ondata nazionale di attenzione e solidarietà per le aree terremotate, il mercato delle lenticchie e dei prodotti tipici locali è riuscito a compensare i tanti problemi, fra i quali la stessa difficoltà di raggiungere i terreni a causa dei problemi di viabilità (per via del maltempo e delle strade chiuse), così come l’inagibilità degli stessi punti di vendita grazie ai quali i produttori arrivano direttamente ai consumatori.» Come è stata affrontata la situazione? «Intanto, per fortuna i locali della Cooperativa della Lenticchia Igp di Castelluccio – che associa aziende agricole che non fanno vendita diretta – non erano stati danneggiati, e la struttura ha fatto da magazzino acquistando anche dai non soci. Altre aziende si sono ingegnate per il commercio online aprendo siti come singole o in gruppo.» Anche se «il 2017 è stato un anno doppiamente difficile, ci si è messa anche la siccità, oltre ai problemi di accesso».

La permanenza delle aziende agricole sul territorio è un fattore di futuro e dà una mano alla normalizzazione post sisma. Oltre che alla biodiversità e all’ambiente. Infatti, fra le molte virtù della proteica, delicata lenticchia ricca di ferro, fosforo e potassio, c’è che per crescere ha bisogno di poco. Si adatta bene in aree montagnose, svantaggiate, tendenti alla siccità, e a Castelluccio, ma anche ad Annifo e Colfiorito, il terreno e il clima sono giusti. E, certificazione bio o no, nella lenticchia dell’altipiano non sono usati agrochimici di sintesi, sostiene il sindacalista. Buono a sapersi, per i consumatori – che ormai sembrano non confinare più il prodotto allo zampone di Capodanno! Ma attenzione: per un comportamento ecologico ed economico, la lenticchia va acquistata secca, non già cotta in barattolo trasportato da chissà dove, acqua di cottura compresa.

Inoltre, attenzione alla provenienza, perché il ragionamento sulla salubrità del prodotto non vale per i legumi di importazione, per esempio da Canada e Cina del Nordest, abbondantemente trattati con disseccanti e pesticidi, secondo l’allarme lanciato di recente dal Consorzio della lenticchia di Altamura Igp in Puglia. Il 2016 le Nazioni unite hanno dedicato un Anno internazionale ai legumi, per promuovere la conoscenza e il consumo di queste importanti proteine vegetali. I terreni giusti per la lenticchia Igp sono già tutti coltivati. Ma certamente, in caso di aumento della domanda c’è in Umbria e in altre regioni altro spazio per mettere a coltura la lenta. Il palato e la salute ne godranno.

Ed eventualmente anche gli occhi. Castelluccio, con la sua piana di 18 km circondata da colline e montagne, nei giorni detti della Fioritura è anche un immenso quadro nel quale fioriscono a miliardi tante specie, in un incanto di strisce e macchie colorate, il giallo della rapa selvatica, il rosso del papavero, l’azzurro del fiordaliso, il viola della violetta, il biancoviolachiaro della lenticchia, nel verde dell’erba. La Fioritura, con la colonna sonora del canto degli uccelletti, è diversa di anno in anno e va in scena per pochi giorni fra fine maggio e i primi di luglio. I turisti sono numerosi e la solidarietà con i terremotati li ha fatti aumentare. Un afflusso che ha creato qualche difficoltà logistica e malumore: sull’altipiano, un sito naturale dove non è facile accogliere troppe automobili. Senza contare la noncurante tendenza a scattarsi pittoreschi selfie al centro dei campi, calpestando appunto le colorate lenticchie.

Dalle lenticchie alla pentola e al piatto il passo è breve, come non è lunga la distanza fra i rispettivi luoghi di produzione, Castelluccio di Norcia e Ficulle. Il coccio è il materiale ideale per i piatti che hanno bisogno di cotture lente e soavi: legumi, cereali, sughi, stufati, minestroni e zuppe.
Il coccio di Ficulle, lo levi dal foco e ancora bulle. Eccoci a Ficulle, nel ternano. A pochi chilometri – anche con il pullman di linea – dalla stazione ferroviaria di Fabro e dalla nota città di Orvieto, ecco il paese in alto, con il castello e le mura e intorno i boschi. Qui e là, pareti d’argilla, quella giusta per i vasai ficullesi, esperti nell’arte povera della terra lavorata al tornio, con la decorazione a colpi di scopetta che lascia macchie brune e verdi sempre diverse, e una invetriatura trasparente a protezione. Altrove in Umbria, a Gualdo Tadino, Orvieto, Guccio, Deruta, si è sviluppata l’arte ceramica. Ma Ficulle (dal latino figulus, vasaio) è da mille e più anni il paese dei cocci di terracotta. Vasellame d’uso, non soprammobili. Tegami e pignatte in argilla refrattaria, creta per orci, brocche, ciotole, piatti, bicchieri, scolapiatti, tazze, vasi e altri oggetti utilitari. Grande crisi negli anni Cinquanta, con l’avvento della plastica e degli utensili di alluminio. La comunità artigiana scende da nove botteghe a due, spiega il bel libretto Una famiglia, una storia, un tradizione di una ex allieva di Costantino Croce, Serena Rosati, ora titolare di un agriturismo. Nel settembre 2012 Costantino ha chiuso bottega. Rimane l’insegna «Terrecotte dal 1834» (quattro generazioni: nel 2011 la Camera di Commercio di Terni gli ha assegnato il premio Le radici del futuro per i 150 anni di attività). All’interno, accanto al grande forno a gas comprato nel 1998 a sostituire quello a legna, rimane l’ultima produzione di cocci.

«Questi pezzi erano il corredo di casa di tutte le famiglie di un tempo, che avevano bisogno delle pignatte per cuocere, di piatti e bicchieri a tavola ma anche, ad esempio, dei secchi per mungere il latte, delle grandi brocche per andare ad attingere l’acqua alla fontana, del focone per scaldare la stanza, del pretino per il letto e naturalmente del pitale notturno!» Anche i colori erano fatti a mano: il verde con rame ossidato dallo zolfo, il marrone triturando oscuri sassi di fosso. Via via nuovi strumenti di lavoro hanno ridotto la fatica, il tornio a pedale è diventato elettrico, l’asinello che con i bigonzi trasportava la creta dalla vena e i cocci pronti al mercato di Orvieto ha lasciato il passo al camioncino. E per fortuna la cristallina ha sostituito da decenni il micidiale piombo usato un tempo per la verniciatura: chissà quante generazioni si sono intossicate lavorando e mangiando. Le tradizioni buone devono rimanere, il brutto va lasciato cadere. Costantino ha fatto un piccolo museo nella stanza grande della sua casa di pietra, dalla finestra con ampia vista sulla valle. La collezione con un oggetto per tipo, le foto dei nonni, del camioncino, i premi, il tornio di legno a pedale, costruito circa sessanta anni fa, sul quale le palle di creta diventavano di mille forme, per chi sapeva sincronizzare mani e piedi. Tanti oggetti sono tuttora di piacevole utilità (si cuoce e si mangia bene nella terracotta) e non uno sfizio per regali di circostanza o piccoli souvenir.

«E in effetti, spiega Costantino, fino a un anno prima della chiusura pensavo di continuare. Si vendeva direttamente, e a negozi, alle fiere. Poi un po’ l’età, un po’ gli obblighi di legge e la burocrazia, un po’ la crisi generale mi hanno fatto dire basta. Ma vorrei non dover demolire questo forno. Spero che qualche giovane, oltre all’ultimo vasaio rimasto, Fabio Fattorini, arrivi qui a ravvivare l’arte povera di Ficulle».
Bene, dipenderà anche da quante persone decideranno che le terrecotte – per cuocere e mangiare, per bere e conservare – sono un oggetto del futuro.

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