Il futuro, se è umano, dovrebbe avere un cuore antico, fatto di memorie, di saperi che conservano l’aroma della terra e del mare, di piccole comunità radicate ma piene di strade su cui, nei secoli, hanno camminato meticciamenti e ospitalità. È ciò che si legge nella quarta di copertina del bellissimo e ultimo lavoro di Laura Marchetti, Sulla tradizione orale. Il mito, il pianto, il canto (Mimesis, pp. 352, euro 28).

IL LIBRO, MOSSO da una fortissima domanda di senso, costituisce un programma epistemologico (e proprio per questo, politico) che rimette al centro la connessione tra tutti gli esseri viventi e questi con il creato. Un approccio non convenzionale, un lavoro di ricerca potentissimo (all’altezza del grande De Martino) che va alla radice o, per dirla con le parole dell’autrice, un approccio di un’ecologia radicale, che non si limita a fornire soluzioni superficiali e di moda, tanto meno nuove salvifiche tecnologie.

Finita la stagione gloriosa del Sessantotto, abbattuto il potere accademico, abbiamo dovuto cercare la strada da soli, orfani di maestri, percorrere una strada che non era stata mai percorsa, ricostruire saperi, inventare nuovi modelli di conoscenza in una università sempre più al servizio dei mercati.

QUESTO LAVORO di Marchetti nasce contro tutti i conformismi accademici, contro i protocolli di un sapere ingessato dalle norme comunitarie. Un ritorno al futuro dove i vecchi maestri tornano ad essere utili guide: De Martino, Levi-Strauss, De Sassure, tantissimi altri.

Per dire che non veniamo dal nulla ma dai secoli di storie, quando i padri e le madri raccontavano ai figli le fiabe, storie dal sapore antico in complicità col mondo animale. Perché il narratore, ci ricorda Laura, il grande narratore, è quello che affonda sempre le sue radici nel popolo ed è, a tutti gli effetti, un artigiano che lavora una materia particolarissima: la vita.

Nel libro c’è la narrazione di quei valori antichi e quelle tradizioni che la modernità ha messo sotto il tappeto come inutile spazzatura, roba da rigattiere, in nome di uno sviluppo inarrestabile, dell’uomo autodeterminato che non ha più bisogno di relazioni. Con i risultati che oggi conosciamo: il prossimo possibile collasso del pianeta per manomissione della biosfera, per le guerre, per l’uso esteso e generalizzato dell’intelligenza artificiale che rischia di privarci della parola, del pensiero, della scrittura, della poesia.

DIFFICILE RIASSUMERE quelle trecentocinquanta pagine densissime di citazioni, note, racconti, storie che hanno costruito, di generazione in generazione, la nostra civiltà occidentale arricchendosi dei miti, delle fiabe, delle umane passioni contro la narrazione moderna, maschilista, dell’eroe che non ha bisogno di chiedere (come recitava una nota pubblicità), che si erge vittorioso su una natura domata, su un mondo addomesticato, giunto però a pochi passi dal baratro prodotto dalla sua hybris.

Il volume si compone di tre parti. Oralità e scrittura compongono la prima parte. In essa si ricorda che non è stata la scrittura, o almeno solo essa, a garantire l’evoluzione e la civilizzazione dell’uomo, ma un indispensabile intreccio tra il gesto (la mano) e la parola (la voce). L’evoluzione, dunque, dalla sua genesi animale, è proceduta per «liberazioni» successive: il corpo dall’elemento liquido, la testa rispetto al suolo, poi la mano e, infine, il cervello rispetto alla macchina facciale. L’ultima è quella collegata alla memoria che, nell’uomo, è libera, coscienza lucida legata al linguaggio.

La seconda parte è dedicata al racconto e al ruolo e l’importanza delle fiabe, poiché, afferma l’autrice citando Benjamin, il primo e vero narratore è e rimane quello delle fiabe. La fiaba, per chi narrava era una portatrice di soccorso; interveniva sempre a dare aiuto e proprio nelle situazioni estreme dove l’angustia è più grave. Narratore che rischia di sparire e, con lui, l’antica arte di raccontare, sostituito, forse, dall’intelligenza artificiale che è la morte di ogni narrazione. Viene in mente, a proposito della strage di Cutro, che perdere l’ascolto del morente, come fa la borghesia, significa negare che «ogni uomo non è così povero se può lasciare in eredità un racconto» (negato ai naufraghi di Cutro).

LA TERZA PARTE è dedicata alla nuda voce, al canto. Oggi la voce fa scandalo perché tutta la società e il suo intero sistema comunicativo pongono sempre più l’attenzione sulla vista, sull’occhio come organo di orientamento. Molte le suggestioni in questa terza parte, dal racconto di Calvino, Il re in ascolto, alla lingualatte delle ninne nanne, alla cura o mitigazione del furore scatenato dal morso della taranta, opera importante nelle riflessioni del grande antropologo italiano.

Si è tentato qui maldestramente di riassumere un libro impossibile da sintetizzare tanto è ricco di tesori umani viventi, testimoni di una storia notturna e dimenticata. Per questo, l’invito è alla sua lettura.