Cultura

L’antenato tra passato e presente

L’antenato tra passato e presenteLa mano dell'Homo Naledi, in Johannesburg, Sudafrica. La nuova specie è stata annunciata da Lee R. Berger con un team di 60 scienziati – Epa/Ansa

Scoperte In Sudafrica, il paleontologo Lee R. Berger ha trovato molti reperti che ricostruiscono l'identità di un ominide prima sconosciuto. Ha lavorato con un'equipe internazionale e ha messo a disposizione di tutti i risultati della sua ricerca

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 11 settembre 2015

Un nuovo homo, o un antichissimo ominide: questo il quesito a cui dovrà rispondere l’intera comunità dei paleoantropologi dopo la giornata di ieri, decisamente storica. Lee Berger dell’università sudafricana del Witwatersrand e i suoi collaboratori hanno pubblicato i due primi articoli che descrivono il ritrovamento di circa 1500 frammenti ossei in una grotta sudafricana, la «Dinaledi chamber». È la stessa zona denominata «culla dell’umanità» dall’Unesco per l’impressionante quantità di ritrovamenti risalenti fino a tre milioni di anni fa.

Secondo le analisi dei paleontologi, le ossa appartengono a una quindicina di individui di età diverse. Homo Naledi, com’è stato battezzato dal suo scopritore, ha caratteristiche ibride: gli adulti dovevano avere un cervello di dimensioni ridotte ma un’altezza ragguardevole (relativamente ad altri antenati) di un metro e mezzo, con un’andatura bipede ma dita adatte anche ad arrampicarsi sugli alberi. Manca ancora un’informazione fondamentale: la datazione dei reperti, resa difficoltosa dalla contaminazione tra questi stessi e il terreno.

Oltre a impedire una collocazione temporale, il contesto del ritrovamento aggiunge ulteriori elementi di mistero. La grotta è quasi irraggiungibile ed estremamente buia. È da escludersi che i corpi ci siano finiti per caso, che l’abbiano occupata stabilmente o esplorata da vivi. È improbabile che una catastrofe improvvisa abbia sorpreso il gruppo, che non sembra essere giunto nella grotta contemporaneamente. Fossili di altre specie sono quasi del tutto assenti: dunque non è stato un predatore a portare i corpi nella grotta. L’ipotesi più accreditata rimane allora quella della sepoltura.

Ma tombe di questo tipo sono state osservate finora solo in ritrovamenti relativamente recenti (circa quattrocentomila anni fa) in antenati morfologicamente e cognitivamente più simili a noi. Inoltre, per seppellire i morti in quella caverna occorre sapersi muovere nel buio completo, forse aiutandosi con delle torce. E anche l’uso del fuoco, secondo le conoscenze attuali, non era alla portata dei nostri avi più lontani. In alternativa, potrebbe trattarsi di una specie umana molto più recente, rimasta isolata e sopravvissuta in condizioni evolutive peculiari, tanto da mantenere tratti morfologici risalenti agli australopitechi (quelli di Lucy, per capirsi, vissuta tre milioni di anni fa) e caratteristiche culturali più moderne. È uno scenario improbabile ma già osservato per il controverso Homo floresiensis, ritrovato in Indonesia e risalente a dieci-ventimila anni fa, con caratteristiche diversissime dall’Homo Sapiens con cui ha convissuto a lungo. Ma se la datazione andasse al di là del milione di anni (qualcuno già parla di due o tre) sarà difficile trovare un posto nel nostro albero genealogico per Homo Naledi senza scuotere la paleoantropologia dalle fondamenta.

Il campo, in realtà, è in movimento già da qualche tempo. È in crisi l’idea che le nostre caratteristiche specifiche (andatura eretta, cervello di grandi dimensioni, sviluppo del linguaggio) siano comparse una volta per tutte in una sola specie: piuttosto, secondo i ritrovamenti recenti, si sono manifestate in varie combinazioni nei diversi «rami» della nostra evoluzione che, dunque, ha visto specie «cugine» convivere per lunghi tratti. Il ritrovamento descritto ieri è destinato ad arricchire il mosaico e a generare una messe di nuove teorie. Non solo per la quantità dei reperti (di Homo Naledi conosciamo l’intera anatomia, mentre di altre specie abbiamo solo frammenti di mandibola), ma anche per l’attitudine insolita dello scopritore.

Berger, quando due anni fa intuì che la grotta di Dinaledi nascondeva un tesoro scientifico, aveva chiamato l’intera comunità a collaborare, condividendo informazioni e dati ancor prima di pubblicare i risultati del ritrovamento. Oggi, a scoperta avvenuta, gli articoli di Berger sono pubblicati su elifescience.org, una rivista scientifica ad accesso gratuito. E oltre agli articoli scientifici, Berger ha messo a disposizione dell’intera comunità le ricostruzioni tridimensionali e digitali dei reperti sull’archivio online morphosource.org.

Si tratta di una strategia innovativa: in genere, è molto difficile (e costoso) osservare da vicino i reperti rinvenuti da gruppi di ricerca rivali. La scommessa di Berger è nobile ma rischiosa, perché avendo a disposizione i dati sarà più facile mettere in dubbio le sue scoperte. Eppure, addio copyright o brevetti, la scienza oggi si può fare anche così. È l’evoluzione, bellezza.

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