L’ansia delle tute blu
Mirafiori Futuro ancora incerto. Fiom: «Il governo convochi un tavolo». Non solo a Torino, ma in tutta Italia, si guarda alle prossime mosse di Marchionne. E per ora nessuno festeggia
Mirafiori Futuro ancora incerto. Fiom: «Il governo convochi un tavolo». Non solo a Torino, ma in tutta Italia, si guarda alle prossime mosse di Marchionne. E per ora nessuno festeggia
Le corse dei pullman diretti a Mirafiori sono spesso vuote. Il gigante del ‘900 industriale italiano non dorme sonni tranquilli. Spopolato dalla cassa integrazione, vive una lunga fase di stand-by in attesa di conoscere le proprie sorti. Ci prova a farsi forza, a intravvedere le «positive conseguenze anche per l’Italia e per Torino» invocate dal sindaco Piero Fassino, dopo l’acquisizione da parte di Fiat del 100% di Chrysler. Ma non è facile. E non è semplice far festa nemmeno per il resto degli stabilimenti italiani del Gruppo, che vivono un periodo di estrema incertezza. Certo, le eccezioni ci sono, come le Officine Maserati di Grugliasco, l’ex Bertone, dove i lavoratori (1900, alcuni «in prestito» da Mirafiori) sono rientrati in fabbrica per la produzione di due modelli: Ghibli e Quattroporte.
Alle voci di giubilo generale non si unisce Michele De Palma, responsabile per la Fiom Cgil del gruppo Fiat, non per disfattismo ma perché «prima sarebbe utile capire i termini dell’accordo». Lo spumante preferisce tenerlo in fresco per «quando i lavoratori rientreranno tutti nelle fabbriche». Ora, però, aggiunge: «È venuta l’ora per Fiat di giocare davvero a carte scoperte. Avremo una missione industriale per Cassino e Mirafiori? La testa e la ricerca ingegneristica rimarranno in Italia o voleranno a Detroit? È venuto il momento di sedersi a un tavolo, non per prendere o lasciare, ma per partecipare a un negoziato vero. Inoltre, chiediamo che il governo convochi finalmente tutte le parti per affrontare il tema del futuro occupazionale e industriale degli stabilimenti italiani, e quindi avere certezza sugli investimenti del piano industriale per il nostro Paese. In Usa il governo Obama si è speso per il salvataggio di Chrysler, quello italiano su Fiat è stato silente».
Il Gruppo torinese conta 86 mila dipendenti in Italia (24.400 negli stabilimenti di Mirafiori, Pomigliano, Grugliasco, Cassino, Melfi e alla Sevel di Val di Sangro, che produce veicoli commerciali), in un settore che in Italia conta 1,2 milioni di lavoratori, di cui 220 mila a rischio (secondo i dati Anfia, l’associazione nazionale filiera industria automobilistica). Un indotto Fiat molto corposo, la cui sopravvivenza è legata alle scelte del Lingotto. A Torino, nella parte attualmente meno fortunata del neo-nato polo del lusso (Mirafiori e Grugliasco), la cassa integrazione coinvolge a rotazione i 5400 lavoratori delle Carrozzerie, dove solo pochi anni fa si producevano 5 modelli e ora si realizza solo la Mito. L’atteso suv Maserati dovrebbe arrivare dal secondo trimestre 2015. I 5 mila lavoratori di Cassino lavorano, invece, tra i 5 e i 10 giorni al mese (il doppio rispetto a Mirafiori) e producono Delta, Bravo e Giulietta.
Visto che le voci sul nuovo piano industriale, che sarà svelato da Marchionne in aprile, parlano di una nuova erede della Giulietta in Lazio, per capire il futuro dello stabilimento, secondo la Fiom, sarà fondamentale capire i volumi di produzione. A Pomigliano, un migliaio di dipendenti sta ancora fuori dalla fabbrica (in cassa a zero ore), dove si realizza la nuova Fiat Panda. A Melfi si lavora due settimane al mese e si aspettano i due mini-suv (Jeep e Fiat), che dovevano andare a Mirafiori. Nell’incertezza nessuno brinda con tranquillità. L’umore più a terra è in Sicilia, dove a Termini Imerese l’annuncio dell’acquisizione di Chrysler ha coinciso con le lettere di licenziamento per i lavoratori dell’indotto. Su un potenziale di un milione e 400 mila veicoli, Fiat ne ha prodotti nel 2013 360 mila, 30 mila in meno rispetto al 2012.
«L’accordo raggiunto, senza spendere un euro, tra Fiat e il fondo Veba ha evitato il rischio del fallimento della fusione, ma ci si scorda – sottolinea Michele De Palma – di un elemento fondamentale. Bisognerebbe ammettere che è frutto del know-how italiano e della capacità industriale degli stabilimenti italiani, che più di tutti ha pagato invece l’assenza di investimenti. Il know-how tecnologico italiano è stato esportato ottenendo risultati e benefici altrove. Per la Fiat 500, prodotta in Messico e venduta negli Usa, sono stati fatti investimenti. Come negli Stati Uniti, dove è ripresa la produzione. In Italia si attendono da tempo, si moltiplicano solo gli annunci.
Ai tempi di Fabbrica Italia i dieci minuti di pausa sembravano il motivo discriminante per le trattative. Ad anni di distanza la cassa integrazione è aumentata a differenza del salario. Mancano tuttora i modelli. Bisogna salvare la capacità industriale e i posti di lavoro. Lo diciamo all’azienda come agli altri sindacati. Torniamo a negoziare con il mandato dei lavoratori». La Fiom incontrerà il 9 gennaio i vertici del Lingotto. I lavoratori italiani non fanno festa (o almeno non tutti), ma sperano in un cambio di marcia. E che la Fiat non sia solo americana.
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