«Non eravamo più niente. Sin da quando dovemmo ammazzarlo tutti e tre signor giudice, benché solo uno di loro fosse il bersaglio dell’odio che ci trasmisero nello stesso istante in cui ci comandarono la strage». «Mi chiamo Gaspare, ho trentadue anni ma tutti mi chiamano Gasparo perché a Palermo i nomi devono finire con la o. Gaspare pare il nome di una pulla. Quindi io sono Gasparo». Due discorsi diretti e tesi. Due voci di killer di mafia che non indugiano. Queste le prime parole che accompagnano la lettura di Malacarne dello scrittore e giornalista Giosuè Calaciura (suo esordio pubblicato nel 1997 con Baldini&Castoldi, risorto questa primavera con Sellerio, pp. 216) e Centoventisei firmato dallo sceneggiatore Ezio Abbate (per lui debutto letterario) e dal multiforme Claudio Fava, oggi presidente della Commissione antimafia siciliana (Mondadori, pp. 132).

Due mafia-novel sugli scaffali delle librerie italiane in questa estate che non sa fare i conti con il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Due romanzi che scelgono di monologare drammaticamente. Il primo in forma assoluta, con un solo protagonista anonimo in una città senza nome che ha l’urgenza, a tratti delirante, di rivolgersi come un fiume in piena a un giudice costantemente in scena ma privo di voce. Il secondo con altri due protagonisti che fanno compagnia a Gasparo. Da un lato sua moglie Cosima – ventinove anni e un ventre in dolce attesa – che si confida così: «Mio marito è un mafioso. Ma è pure un bravo cristiano, un lavoratore, uno che si toglie gli occhi dalla faccia per farmi stare bene». Dall’altro l’orfano Cristoforo, «cane di bancata» ribattezzato da tutti Fifetto che dopo una vita di «tiri storti, camurrie, giri a vuoto» sogna di diventare picciotto l’estate del 1992, poche ore prima che il giudice Borsellino salti in aria con la sua scorta una domenica di luglio. Quattro personaggi che raccontano la vita in odor di mafia. Le sue consuetudini e le sue ossessioni. Le sue prassi e le sue irregolarità. Malacarne, giudicato da più parti il miglior romanzo sulla mafia dai tempi de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, scritto nell’Italia post-stragi, fra arresti eccellenti e pentitismo di massa, in un clima giudiziario figlio del Maxiprocesso a Cosa nostra e del suo rivoluzionario racconto televisivo. Un romanzo folgorante e vulcanico, capace di estraniarsi dalla narrazione pubblica che mafia-e-antimafia vissero in quel periodo.

Centoventisei immaginato per raccontare oggi – in un clima culturale ancora segnato da quel paradigma a più facce che è Gomorra – in forma letteraria e lasciandolo sullo sfondo, l’ennesimo mistero italiano. Un caso di depistaggio con tanto di finto pentito, che ha visto celebrarsi processi di cui è difficile anche solo tenere il conto e sul quale, questo 19 luglio, il procuratore nazionale antimafia Melillo è arrivato a «chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage» (Corriere della Sera). Letteratura che sceglie – eticamente – di allontanarsi dal racconto del «bene», dando voce a coscienze maledette e disperate, capaci di sognare, confessare, ammettere, ricordare, confidare. Pagine a cui si affiancano in questa torrida stagione gli Appunti per Falcone, un inedito di Franco Scaldati che il sempre eretico Franco Maresco ha portato in scena alle Orestiadi di Gibellina 2022. Un testo in cui il riferimento più chiaro a Giovanni Falcone è il monologo di un boss, con ogni probabilità il «re della Kalsa» Masino Spadaro che il giudice assassinato il 23 maggio 1992 conobbe in gioventù. Operazioni concepite in epoche diverse che oggi convergono parallelamente per arricchire, qualitativamente, l’iperproduzione culturale sulla criminalità organizzata nel nostro Paese (solo sulla strage di Via D’Amelio, ultima in ordine di ricorrenze, si contano oltre ottanta libri). In questi trent’anni si è dunque fatto cinema, teatro, fiction, approfondimento televisivo, inchiesta giornalistica, radio, serie Tv, graphic novel, podcast.

Impossibile, attraverso questo gigantesco corpus narrativo, non avere nel proprio immaginario un’idea di cosa sia (stata) la mafia nella storia nazionale. Allo stesso tempo si avverte, in linea generale, la sensazione che abbia più volte prevalso il racconto individuale e la testimonianza diretta di quanto accaduto, favorendo il legittimo portato emotivo di vicende tristi e dolorose. È spesso venuta meno la complessità e la drammaticità degli eventi che hanno minato e continuano a minacciare, indebolendolo, il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Contemporaneamente si è alimentata una percezione, non sempre serena e matura, dell’attività giudiziaria che ha permesso a questo potere di essere vissuto come una cintura di salvataggio a disposizione di una timida e tremolante democrazia.

Il racconto del «male» è stato poi stigmatizzato in termini pressoché assoluti, rifuggendo da qualsiasi tentativo analitico perché ritenuto antieducativo e civilmente scorretto. Hanno trionfato, sul versante opposto, le icone dei martiri dell’antimafia, più volte oggetto di una grossolana decontestualizzazione delle loro esistenze. Hanno battuto in ritirata i fatti storici e giudiziari nella loro complessità. È stata costruita tanta memoria. Di certo si è fatta poca storia. E ancor meno politica, la vera arma contro la criminalità mafiosa che il comunista-pacifista Pio La Torre, ucciso il 30 aprile del 1982, definì «fenomeno di classi dirigenti». In questo quadro, le pagine di Malacarne e Centoventisei, insieme agli Appunti di Scaldati diventano tentativi che cercano di dare sollievo e conforto a quel «binomio sofferto» – così lo definì Vincenzo Consolo nel 1994 – che mafia e letteratura hanno rappresentato nella nostra storia. Lo fanno credendo religiosamente alla forza della parola. D’altronde, in principio era il verbo. Tutto il resto venne dopo.