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L’animazione come terapia

L’animazione come terapia

Pop culture Lo psichiatra Francesco Pantò parla del suo lavoro e del suo libro «Anime Ryoho»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 agosto 2023

Francesco Pantò è uno psichiatra che lavora in Giappone e allo stesso tempo studioso di pop culture del Paese. È saggista e scrittore, attivo in molti ambiti tra la medicina e la produzione culturale, con progetti che sconfinano tanto nella realtà virtuale quanto nei media. Ed ora è anche un «personaggio» (esiste un manga basato su di lui). In sintesi: Francesco è un intellettuale onnivoro, come dovrebbero essere oggi gli intellettuali.
Lo abbiamo incontrato a Tokyo, per parlare della sua formazione e del suo lavoro.

Come sei arrivato fin qui?
Da piccolo ho sempre scritto storie, poi mi sono avvicinato ai manga e all’animazione giapponesi, scoprendo stili e degli immaginari che le opere occidentali non avevano. Questo mi ha stimolato tantissimo dal punto di vista creativo, rendendomi un appassionato.
In seguito, quando ho studiato filosofia, ho capito che la psichiatria era il campo universitario che volevo intraprendere, visto soprattutto dal versante di pratiche come il counseling, la narrative medicine etc. Per me la cosa fondamentale è stata la scoperta di un modo di intendere la psichiatria attraverso la narrazione, un modo capace di farci prendere cura dell’esistenza come fosse un esercizio di riscrittura.
Di un uso curativo della cultura pop ne avevo fatto esperienza in prima persona e quindi, mi sono detto: perché non coniugare il mio interesse per la scrittura, la cultura giapponese e la narrazione con la medicina? Dopo medicina in Italia, ho fatto domanda per un dottorato qui in Giappone, dove poi mi sono abilitato come psichiatra.

Il tuo primo libro, «Anime ryoho» (Kobunsha, 2022), ci introduce all’idea di pensare agli anime come strumento di cura (ryoho è traducibile con il termine terapia). Ma la tesi del saggio è più complessa. Ce ne vuoi parlare?
Nell’ambito della ricerca medica mi sono concentrato su soggetti-target per una terapia dell’animazione, come per esempio gli hikikomori. Dopo aver capito il funzionamento scientifico di certi meccanismi e quali elementi sul piano psicologico puoi cominciare a «manipolare» con le storie a fini terapeutici, quello che ho cercato di fare con il libro è provare a porre le basi di un possibile nuovo metodo per far fruire in modo proficuo prodotti dell’intrattenimento come, appunto, gli anime.
Nella psicologia non si ha a che fare con dicotomie (malato/sano, depressione/salute), perché volente o nolente ci sono sempre sfumature. Per questo, cerchiamo qualcosa che possa sostenere e mettere in equilibrio la nostra salute sempre così precaria, qualcosa che sia necessariamente godibile, no? Ho quindi scritto il libro per cercare di diventare una sorta di portavoce verso le persone dell’ambito dell’entertainment per dire qualcosa del tipo: guardate, gli anime e i giochi possono anche avere un effetto positivo. Lavoriamo insieme per sviluppare questo tipo di possibilità? Poi, se vogliamo, la terapia dell’animazione nasce con l’idea che possa essere utile soprattutto a prevenire le malattie mentali. Per questo è dedicata a tutti e tutte.
Infine, andando nel dettaglio, ci sono diversi tipi di anime ryoho. Per esempio, c’è quello a livello del counseling. In questo caso è come se fosse una terapia narrativa. Si sceglie un’opera insieme al paziente, o magari un personaggio. Poi si comincia con una intervista: lo scopo è di passare dal parlare dell’opera al parlare al paziente. Io guido questo movimento. All’inizio faccio notare le cose dentro la storia e poi quelle dentro alla persona in cura come fosse un percorso di sincronia tra le parti.

Il libro l’hai scritto direttamente in giapponese. Come mai?
Ho pensato che se volevo lanciare un messaggio ai giapponesi, non volevo fare l’esperto del Giappone all’estero. È facile fare gli esperti parlando nella propria lingua. E forse è anche un po’ arrogante perché, se parli di giapponesi, sarebbe giusto che i giapponesi sappiano che tu stai parlando di loro. Per far capire ai giapponesi quello che avevo da dire, mi sono quindi detto che dovevo passare per una sorta di apprendistato che significava, anche, utilizzare la loro stessa scrittura, in prima persona.

Progetti per il futuro: ci puoi dire qualcosa?
Il mio scopo principale è di continuare ad essere un ponte tra la medicina e l’entertainment. In più, invece di convincere le persone con la sola teoria, vorrei mettere in pratica le mie idee e quindi creare un’opera che sia un mondo, che si possa «espandere» seguendo le direttive dell’anime ryoho così da far intendere che questo approccio può anche essere pensato come una sorta di genere narrativo. Per comunicare a più persone possibili, so che devo affidarmi al grande intrattenimento, il che vuol dire un sistema chiuso e la necessità di convincere che la propria storia può vendere. Quindi ora sono impegnato a debuttare nel mondo della fiction affinché il mio racconto possa diventare popolare e da lì ingrandirlo.

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