L’anima e la terra
Parchi agricoli Quella di Cobragor è una storia di «braccianti rossi» nel cuore di Roma, una cooperativa nata negli anni ’70 dalla lotta di un gruppo di disoccupati. Un’esperienza che ha fatto strada
Parchi agricoli Quella di Cobragor è una storia di «braccianti rossi» nel cuore di Roma, una cooperativa nata negli anni ’70 dalla lotta di un gruppo di disoccupati. Un’esperienza che ha fatto strada
A pochi chilometri dal centro capitolino, a nord-ovest, sorge la Riserva Naturale dell’Insugherata. Dentro la Riserva è allocato il Parco Agricolo Casal del Marmo, dove ha sede Cobragor (cooperativa braccianti agricoli organizzati), un’azienda che vanta quarant’anni di anzianità: nacque da urgenze materiali che portarono giovani senza lavoro all’occupazione di terre incolte. Un’esperienza sorta nel fuoco degli anni Settanta, in quella fluviale mobilitazione delle classi subalterne che riscopriva il gusto di lottare per una nuova esistenza. Molte furono le conquiste, ma la disoccupazione continuava a mordere. Cobragor sorse in quell’intenso fermento e ha vinto la sfida col tempo, consolidando pensieri liberanti.
IL VIALE D’ACCESSO è tappezzato di magnifici ulivi, sbocca sul piazzale dove un giovane issato sul ponteggio sta ravvivando i colori di un graffito disegnato ai tempi dell’occupazione. Il suo autore originario è Paolo Ramundo, l’attuale presidente della cooperativa, che mi viene incontro con la mano tesa: Paolo ha gli occhi azzurri, la barba bianca, un sorriso accogliente, 75 anni portati mica male ed è l’unico superstite del manipolo che iniziò l’avventura nella primavera 1977.
«In quegli anni noi eravamo iscritti come disoccupati agli Uffici di Collocamento, ma era dura attendere un lavoro incerto, occorreva sollecitare risposte ai nostri bisogni: andavamo davanti alle fabbriche, ai cantieri, agli ospedali… a chiedere lavoro. Come Disoccupati organizzati facevamo scioperi alla rovescia: in chiave dimostrativa e simbolica andavamo a svolgere mansioni necessarie, ricordo che andammo all’Umberto I e ci mettemmo a pulire le stanze… Ma in città ci sono anche grandi aree di terra abbandonata; avevamo contatti con la Federbraccianti, un sindacato aperto alle nostre istanze, e loro ci segnalarono terreni pubblici abbandonati da decenni».
PAOLO NON VENIVA dal niente: nel ’77, a 25 anni, era già un architetto, lavorava ai progetti di studi professionali, all’università era stato allievo di Paolo Portoghesi e animatore del dissacratorio gruppetto gli Uccelli, nel sociale partecipava a un collettivo romano di persone variegate (l’attrice Isabella Rossellini, il critico musicale Carlo Zaccagnini, la sociologa e giurista Yasmine Ergas, l’economista Giuseppe Roma…) che appoggiava gli occupanti di case popolari, fu un anticipatore della Street Art e suo è uno dei dipinti storici affrescati sui muri di Tor di Nona: l’Asino che vola.
Ma Paolo è allergico a parlare di sé come singolo, ama l’afflato plurimo: «Nel movimento ragionavamo in termini collettivi, non c’era come oggi la tendenza ipertrofica all’io, c’era un noi che ci ispirava e ci muoveva. Eravamo immersi nell’utopia di un cambiamento generale, sociale economico culturale… La campagna mi affascinava, era nell’anima, così m’impegnai nell’occupazione delle terre. Anche se qui siamo in piena città, circondati dai quartieri metropolitani; quando arrivammo, la gente usava il luogo come discarica, trovammo frigoriferi buttati e macchine defunte, sanitari rotti e macerie. Alcuni occupanti si misero le mani nei capelli, erano disperati, disarmarono».
PERÒ CHI CI CREDEVA non disarmò. Con l’appoggio delle Istituzioni aperte al dialogo. A metà decennio l’onda d’urto di un movimento di massa che dagli anni Sessanta scardinava vecchi equilibri di potere portò a risultati inediti sul piano elettorale. Nella Capitale il Comune, la Provincia e la Regione avevano giunte rosse, la Sinistra era incarnata da persone serie, perbene, attendibili: «Nel movimento eravamo in centinaia ad occupare le terre, alcuni di origine contadina. Nel ’77 in Italia ci furono tante occupazioni simili alla nostra, molte tuttora vive e vegete (il prossimo maggio faremo un incontro nazionale). Noi soci fondatori di Cobragor eravamo ventuno, altri 20-30 costituirono altre cooperative come Agricoltura Nuova a Roma sud; oltre ai soci c’erano tanti altri, nei cortei sindacali sfilavamo con spezzoni di corteo notevoli, la stampa ci seguiva con attenzione.
Non avevamo capitali se non quello umano, facemmo un piano di sviluppo con degli agronomi solidali e la Regione ci assegnò i primi contributi, organizzando pure corsi di avviamento agricolo, sensibili al dramma disoccupazione al pari degli altri Enti locali. Non avevamo neppure macchine e il sindacato fece venire gli agricoltori da Maccarese coi trattori per dissodare e mettere in produzione i terreni: era una solidarietà operativa. Bello, no? Certo le Istituzioni erano più aperte di oggi, ma anche adesso la lotta paga: nel 2016 la giunta Marino ha indetto bandi e dato in concessione terre dismesse a gruppi di giovani richiedenti».
NEL TEMPO COBRAGOR, che dai primordi paga un regolare affitto alla proprietà pubblica, è evoluta in azienda agricola multifunzionale: attualmente una decina di operatori stabili (fra cui un afgano) coltivano 40 ettari con metodo biologico; insieme a 1.500 ulivi e 2.600 alberi da frutta producono cereali, frutta, olio, marmellate, miele, conserve… e uova di galline che razzolano liberamente. Inoltre in azienda si può pernottare, c’è un ristorante aperto la domenica, si organizzano eventi culturali, feste e visite didattiche con laboratori sull’orto e la frutta, nella bella stagione i bambini frequentano il centro estivo. «Tutto ciò avvicina i cittadini alla terra e rappresenta una critica pratica verso l’agroeconomia intensiva, speculativa, tossica, lontana. Mentre è cresciuta pure la comune coscienza civile, per esempio i cittadini hanno spontaneamente promosso comitati per valorizzare le agroaree e impedire cementificazioni; sono gli stessi che vengono da noi a fare la spesa, passeggiano nei campi, socializzano fra loro, osservano i ritmi della natura, omaggiano la mente di nuove dimensioni, migliorano la qualità di vita».
PER NON ADDORMENTARE il cervello Paolo ultimamente ha intrapreso una nuova battaglia di alto profilo, insieme ad associazioni varie: «un progetto strategico volto al benessere e alla salute dei cittadini da realizzare nel complesso dell’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà – dismesso con la riforma Basaglia – che si trova qui vicino. Con le solite prerogative visionarie – è la prima volta che ne parlo – sto sostenendo l’ipotesi di farvi un grande centro di eccellenza sulla giusta alimentazione, con laboratori e strutture di ricerca sulla biodiversità, documentazione e banche dati, formazione e produzione sostenibile… Una faccenda grossa, siamo appena alla fase iniziale di formulazione del progetto, un luogo di riferimento e rilevanza internazionale, promosso dalla base sociale e connesso all’università, al Cnr…». Ma questa è un’altra storia.
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