L’Angelus novus dell’Antropocene
Letteratura e ecologia Da Leopardi (Dialogo Folletto-Gnomo) a Franzen, una antologia narrativa per riflettere sulla distruzione ambientale: "Racconti del pianeta Terra" a cura di Niccolò Scaffai, Einaudi
Letteratura e ecologia Da Leopardi (Dialogo Folletto-Gnomo) a Franzen, una antologia narrativa per riflettere sulla distruzione ambientale: "Racconti del pianeta Terra" a cura di Niccolò Scaffai, Einaudi
L’incontro è ufficiale quanto più non si potrebbe: presente la massima autorità dello Stato, che ascolta la relazione di un noto uomo di scienza. Il titolo della conferenza è esplicito: «Sull’attuale regresso dei ghiacciai nelle Alpi». L’uditorio ascolta con attenzione e alla fine l’autorità esprime viva preoccupazione per i pericoli che lo scienziato ha appena preconizzato. L’episodio sembra riferirsi a un evento dei giorni nostri, ma non è così. I protagonisti evocati sono il re Umberto I e il geologo e paleontologo Antonio Stoppani, convenuti a una seduta dell’Accademia dei Lincei il 18 dicembre 1881. Stoppani, autore del primo best seller dell’Italia unita con il suo Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia (1876), illustrava quel giorno al pubblico i rischi legati ai mutamenti climatici, lui, che aveva con lungimiranza coniato un neologismo, antropozoico, per definire l’era che il pianeta stava attraversando.
L’episodio si affaccia alla mente di chi legge questi Racconti del pianeta Terra, la silloge di racconti curata da Niccolò Scaffai (Einaudi, pp. 316, € 21,00), a dimostrazione di quanto precoci (ed evidenti agli occhi di chi sapesse intenderli) fossero anche nel passato i segni del dissesto ambientale cui si andava incontro. Sui testi selezionati aleggia l’avvertimento di un’incombenza nefasta su larga scala, un’incombenza che si delinea in un arco di tempo tanto ampio che la sua gravità resta impercettibile ai più per la relativa lentezza con cui si manifesta. Come la rana che finisce bollita nell’acqua che si scalda poco a poco, secondo l’apologo di Noam Chomsky, l’umanità si sta abituando alla fine del pianeta e non ha la forza di reagire.
L’immagine di copertina di Émilie Möri (un’enorme montagna di ghiaccio si staglia minacciosa sugli umani che prendono il sole in una spiaggia dalla sabbia rosata) introduce al tema dei racconti e suona come un sinistro countdown. «La nostra epoca è conosciuta con il nome di Antropocene … l’uomo è diventato un decisivo agente di trasformazione sistemica», scrive Scaffai nell’ introduzione ricchissima e assai argomentata sotto il profilo scientifico e letterario. L’invenzione della parola dà la misura della gravità che il concetto rappresenta, visto che alla formulazione del nome si arriva quando si coglie l’estensione di un fenomeno, per cui definirlo significa prenderne atto, cioè finalmente vederlo. Anche se in ritardo.
In apertura, il leopardiano Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, tratto da quelle Operette morali che nello splendore e nel rigore di una prosa filosofica rimasta insuperata presenta i costumi degli umani, le loro incongruenze e il destino di distruzione cui essi risultano condannati. Di tutta evidenza che per una mente acuta il destino fatale del pianeta era già inscritto nell’orizzonte del possibile.
Quattro le sezioni proposte (Futuri anteriori, Gli animali ci riguardano, Il senso della fine, L’inaudito in primo piano) ed eterogenei gli autori (H.G. Wells, J. London, Coetzee, Primo Levi, Sjöberg, Ortese, Safran Foer, Rigoni Stern, Sebald, Volodine, Martin Adams, Le Guin, Proulx, Ballard, Zanotti, Ghosh, Zadie Smith, Atwood, Franzen), i cui racconti fanno toccare il senso della fine, generalmente data per indubitabile.
I testi antologizzati sono ovviamente legati tutti alla funzione ‘tempo’: il già accaduto, l’accadente e il futuro che accadrà, e postulano uno sguardo esterno rispetto alla catena della cronologia, l’uscita dal proprio tempo e l’ingresso all’interno di una dimensione straniata. La funzione tempo è qui declinata nell’auscultazione del pianeta malato, sempre più sofferente a causa delle mutazioni recate dal genere umano: il riscaldamento globale, il consumo massivo di carne, l’uso scriteriato di pesticidi e molto altro.
È pur vero che a guardare agli albori delle civiltà letterarie troviamo sempre uno sguardo da lontano rispetto al pianeta e ai suoi abitanti, coinvolti in un grave dissesto (Gilgamesh, l’immortale Amloði, progenitore dell’Amleto shakespeariano, o Marduk), in una fine del mondo che torna a presentarsi periodicamente. «L’angelus novus dell’Antropocene spinge il suo sguardo verso un orizzonte remotissimo, lasciando intuire come la catastrofe di oggi avvenga insieme a quelle del passato». Un conto è però leggere testi poetici di duemila o cinquemila anni fa, altro conto è sentirsi raccontare per filo e per segno come vengono stritolati i pulcini inadatti all’ovicoltura, o come gli scarichi di metalli pesanti nelle acque del mare del Nord facciano nascere aringhe deformi e alghe velenose.
Scaffai l’aveva sostenuto in Letteratura e ecologia (2017) e in altri contributi dedicati al rapporto uomo-ambiente: lo sguardo ecologico profondo porta necessariamente alla percezione dei contesti e delle relazioni tra i fenomeni osservati e la storia, ossia a collocare ciascun dato all’interno di una dinamica e a riconoscere i punti di svolta cruciali di un processo di così enormi dimensioni. Un esempio emblematico è quello del racconto I ghiri (compreso nella raccolta), nel quale Mario Rigoni Stern rievoca un episodio avvenuto in una località dell’Appennino, dove nel ’44 gli occupanti tedeschi, per stanare i partigiani, fecero tagliare una macchia di bosco ceduo, taglio cui seguirono negli anni successivi altre scelte scellerate che portarono infine allo snaturamento dell’intero ecosistema. La potente narrativa di Rigoni Stern dà dimostrazione implacabile di quanto gravi siano nel tempo le conseguenze di operazioni dettate da interessi ciecamente particolari: bosco, ghiri, alberi ed esseri umani sono maglie di una rete sistemica e toccarne un solo punto non può non avere ripercussioni (nefaste) su tutto l’insieme.
Invece di ricorrere al linguaggio della fantascienza, che per solito prospetta in un futuro lontano l’estinzione della vita sul pianeta, i testi qui raccolti restano all’interno della scrittura anche d’invenzione ma documentata, il che costringe il lettore a seguire osservazioni e ragionamenti circostanziati che danno conto del presente e prefigurano un futuro di lacrime e sangue. Nel testo finale, E se smettessimo di fingere, Jonathan Franzen taglia il nodo di Gordio e vieta ogni possibile mistificazione: la speranza non è più un’opzione, il disastro è prossimo e moltissimi esseri umani dovranno accettare un forte ridimensionamento del tenore di vita a cui sono abituati e «dovranno essere costantemente terrorizzati dalle estati più calde e dai disastri naturali più frequenti, anziché semplicemente abituarcisi. Ogni giorno, invece di pensare alla colazione, dovranno pensare alla morte».
Il montaggio dei racconti suona come un estremo tentativo di chiamare a raccolta le energie e le volontà dei membri dell’umanità (ma il discorso vale per la parte che ha le maggiori responsabilità della situazione) che accettino e ammettano che il pianeta è agli ultimi minuti di una partita priva di tempi supplementari. Il tema è quello dell’apocalisse, intrinseco all’immaginario dell’Antropocene, e ancora una volta occorre fronteggiarlo.
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