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Lane Fox, questione omerica o fanfiction?

Lane Fox, questione omerica o fanfiction?Apoteosi di Omero, piastra in rilievo di Jasperware su disegno di John Flaxman, Wedgwood, 1786, British Museum

Cultura classica Robin Lane Fox ha compilato seicento pagine accattivanti su «Omero e l’Iliade» (Einaudi), ma certe posizioni critiche non convincono...

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Sarebbe auspicabile che l’apparire di un saggio sulla poesia omerica firmato da uno studioso di rilievo internazionale ma aperto ai lettori non tecnici, offra l’occasione per ravvivare nel pubblico l’attenzione per il primo poeta d’occidente. A tale auspicio vorrebbe rispondere Omero e l’Iliade di Robin Lane Fox (ed. inglese Allen Lane 2023), uscito da poco per Einaudi e tradotto da Valentina Palombi («Saggi», pp. X-606, euro 36,00). L’opera è destinata a far parlare di sé, nel bene e nel male, come tutti i contributi e gli studi sulle questioni omeriche, che con l’omerologo Gregory Nagy ci sentiamo di declinare al plurale. Robin Lane Fox, pluripremiato emeritus fellow dell’università di Oxford e a tempo perso corrispondente del Financial Times in materia di giardinaggio, non è nuovo a queste prove di profiling di personaggi colossali: basterà ricordare il suo Alessandro il Grande, edito in inglese nel 1974 sempre da Allen Lane e in italiano ancora da Einaudi, con traduzione di Guido Paduano.

Il lettore italiano che si accosti a questo Omero e l’Iliade vi troverà pregi e difetti che già erano nell’Alessandro. Lane Fox tocca il problema con esperienza didattica di lungo corso, ma anche col piglio del divulgatore di alto livello e l’andamento narrativo accattivante della saggistica anglosassone, in modo da attrarre il lettore meno esperto senza scivolare troppo al di sotto della linea di galleggiamento del rigore scientifico. Con la classica articolazione giornalistica del come? dove? chi? quando? perché?, l’opera si divide in cinque sezioni di grande limpidezza, agili, lineari e immediate, ma subito si è tentati di aggiungere: fin troppo. Ne risulta senz’altro una lettura piacevole per l’orecchio del lettore medio; non serve però essere uno schizzinoso lettore tecnico per avvertire la stonatura di fondo: questo taglio narrativo, talora quasi biografico, può funzionare per Alessandro Magno, ma non per Omero.

Nei capitoli dedicati al dove e al chi avrebbe composto l’Iliade, Lane Fox conduce per mano il lettore nei luoghi del poema. Certo, è vivida in ogni appassionato la memoria di come Schliemann e i suoi predecessori, da lui oscurati con spregiudicata malagrazia, avessero trovato il sito di Troia servendosi dell’Iliade come di una guida sul campo. Fox stesso rileva che le indicazioni omeriche appaiono nitide e precise, ma al contempo ambigue e spiazzanti. Ma a dispetto di questi iniziali toni moderati, le sue idee sulla creazione del poema e sul poeta sfiorano la fanfiction, per riprendere la bonaria rimostranza che nel 2017 due studiosi, Chiara Bozzoni e Ryan Sandell, non noti fuori dell’accademia, rivolsero in absentia addirittura al massimo esperto mondiale di poesia greca arcaica, il compianto Martin West.

Per Lane Fox l’Iliade è opera di un cantore che si sarebbe chiamato effettivamente Omero e avrebbe performato il suo poema per la prima volta davanti a un esercito in guerra. Lo storico inglese si lascia guidare dalle analogie con l’esercito di Alessandro Magno, che nella sua marcia aveva al séguito dei poeti. Più tardi Omero avrebbe tenuto una seconda performance, dettando e facendo fissare per iscritto l’Iliade su pelli di animali conciate, per lasciarla ai suoi eredi come bene di valore da cui trarre vantaggio (p. 175). Questa ipotesi sugli eredi di Omero porta Fox a suggerirne fra le righe un’altra, quantomeno ingenua, sulla prima origine dei cosiddetti Omeridi, cioè quella corporazione di rapsodi che nel VI secolo a.C. si vantava discesa dal poeta.

Intendiamoci, egli ha ragione nel ribadire che i poemi furono davvero messi per iscritto, o in gergo tecnico, «testualizzati», fra il 750 e il 720 a.C., non fra il 670 e il 630, come volle West, non ai tempi di Pisistrato, vecchia idea che ogni tanto ritorna in gioco; cita a rincalzo i fondati studi che mettono in evidenza quanto la lingua di Omero suoni arcaica e testimoni fasi antichissime della tradizione epica. Inoltre i poemi mostrano davvero tracce di registrazione sotto dettatura: nella foga del canto il poeta, che compone oralmente dettando, corregge a volte il tiro in corso d’opera, perché la parola detta, volata via con le sue ali oltre la siepe dei denti, non può essere richiamata. Così per esempio Agamennone ferito combatte «finché il nero sangue ristagna» (Il. 11, 266): il poeta si lascia trascinare dalla scena narrata, ma poi precisa che appena la ferita ristagna e il dolore si fa acuto, l’eroe deve ritirarsi. Così una svista diventa una raffinata notazione psicologica: ma la traccia del ripensamento del cantore resta e prova che siamo di fronte a testi dettati da un poeta che improvvisa.

Oltre però non è lecito andare: i poemi omerici restano opere tradizionali in un contesto in cui la creatività della poesia orale non si arresta; subiscono alterazioni e aggiunte ben oltre le soglie del V secolo a.C., perciò ogni tentativo di ricavarne indizi, anche solo generici, sui loro autori, resta vano ed è in ultima analisi fuori luogo.

Nel seguire tale indirizzo di pensiero, Lane Fox sottovaluta quella che è un’acquisizione della filologia fin dai tempi del Vico, che la scoprì: «Omero» è un nome parlante di attestazione tarda: è il patrono eroico della professione del poeta che «raccoglie» le storie e negli agoni poetici «si raccorda» con altri «colleghi».

«Raccogliere», «collegare» e «raccordarsi» sono i significati che nel nome di Omero si celano. Fox ritiene di poter avallare la sua teoria sottolineando che di questo nome sarebbe conservata traccia in Esiodo: nella Teogonia, il poemetto sugli dèi di fine VIII secolo, Esiodo alluderebbe a Omero quando narra di come le Muse si «raccordino» con le voci (Teog. v. 39): è un’ipotesi di cui l’autore di Omero e l’Iliade si attribuisce la paternità; in realtà ritorna di tanto in tanto nella storia degli studi omerici, e anche il modesto stilatore di queste note se ne è reso per breve tempo colpevole, traducendo e curando in proprio l’Iliade nel 2010. Molto più verosimile è però quanto stabilisce Simonetta Nannini (Omero, l’autore necessario, Liguori 2010): Omero è il nome parlante d’autore che oltre a condensare i caratteri della professione di aedo e rapsodo, serve a spiegare l’esistenza dell’epos, colmando con un mito fitto di allegorie il vuoto lasciato dalla tendenza dei cantori orali a restare anonimi.

Un altro aspetto del saggio di Lane Fox che non ci ha persuasi è il modo in cui liquida il rapporto di Omero e del ciclo epico con la storia. Nel suo negare in assoluto ogni relazione sostanziale fra l’età del bronzo e i materiali omerici, egli segue fin troppo Moses Finley. Lo stesso atteggiamento liquidatorio mantiene per il lato est dell’Elicona, cioè per gli influssi su Omero di epiche anatoliche e mediorientali, come il poema di Gilgamesh. In tal modo trascura un ampio filone di studi sull’oggettiva presenza di nomi «di interesse omerico» nella documentazione scritta delle civiltà egee del bronzo tardo, per non parlare della sterminata serie di episodi che con tutta evidenza sono confluiti nell’epica greca dai miti e dalle cronache del vicino oriente. Il suo approccio è tanto scettico verso il peso di dati storico-archeologici accreditati, quanto è fiducioso nell’asserire le basi, a nostro avviso deboli, del suo speculativo ritratto del poeta.

Per altri aspetti Omero e l’Iliade resta tuttavia un accettabile strumento per cominciare. La storia della questione, e in specie l’evoluzione degli studi oralistici, vi è compendiata con lucida precisione; ma la parte migliore del libro, che rivela la fine sensibilità del critico nel suo rapporto col testo amato, resta la sua attenta disamina dei temi e delle linee narrative alla base di quella che Havelock chiamava la raffinatezza di Omero. La capacità di Lane Fox di rendere accattivante la materia dell’Iliade raggiunge l’effetto massimo nei capitoli della parte quarta e quinta, per le quali il libro vale comunque la pena di essere letto, con tutte le sue manchevolezze.

Fra i pregi che lo connotano, uno ci tocca personalmente: la dichiarata preferenza dell’autore per le traduzioni che rendano in qualche modo, nelle lingue moderne d’arrivo, il ritmo dei versi originali. Anche qui però Lane Fox pecca di trascuratezza: cita l’Iliade tradotta da Peter Green nel 2015 (p. 101), ma non volendo considerare, da buon anglosassone, le traduzioni in esametri in altre lingue moderne, avrebbe potuto almeno ricordare la bella versione inglese di Rodney Merryll (Iliad, 2009), che di quella di Green è assai più rigorosa per metro e stile.

Ci duole infine dover rimarcare diversi refusi, che da una traduttrice come Valentina Palombi, anche lei di lungo corso, non ci saremmo aspettati. Qui diremo soltanto del più vistoso. In Omero e l’Iliade vengono citati quegli studiosi che a suo tempo «dissolsero» i poemi ritenendo che essi fossero «prove di una composizione frammentaria proseguita nell’arco di molte generazioni…». Lasciando stare la poco adeguata definizione di «analisi» del poema – una svista di metodo dell’autore –, notiamo che alle pagine 73, 103 e 115 dell’edizione italiana il termine tecnico analysts viene reso con «analisti» in luogo di «analitici»; quest’ultimo è impiegato invece sempre laddove nel testo inglese c’è l’aggettivo analytical: una scelta traduttiva, di fatto un calco, che determina fra l’altro un umoristico errore di concetto, inducendo il lettore a immaginarsi Omero sul lettino di uno psicoterapeuta che indaghi le ragioni della sua crisi di identità.

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