Landini ci dica anche il “come”
Nel coro suscitato dalla mossa di Landini sulla coalizione sociale alcune cose sono scontate. Tra queste la fredda risposta del sindacato e della sinistra Pd. Era prevedibile, da parte di […]
Nel coro suscitato dalla mossa di Landini sulla coalizione sociale alcune cose sono scontate. Tra queste la fredda risposta del sindacato e della sinistra Pd. Era prevedibile, da parte di […]
Nel coro suscitato dalla mossa di Landini sulla coalizione sociale alcune cose sono scontate. Tra queste la fredda risposta del sindacato e della sinistra Pd. Era prevedibile, da parte di chi vede un potenziale competitor in un mercato già difficile. E tuttavia dispiace. Perché entrambi i soggetti avrebbero potuto riguadagnare un terreno ormai perduto. La sinistra Pd smarrita nei fumi delle ambiguità timorose e della fedeltà a una ditta che ha già portato i libri in tribunali. La Cgil nella evidente incapacità di tradurre in risultati concreti la sua tuttora notevole forza organizzata.
Ma è giusta la mossa di Landini? Per valutarla, bisogna considerare quel che necessita. Qui una cosa sembra chiara: la domanda vera in campo è la costruzione di una nuova soggettività politica a sinistra. Una esigenza posta fin dalla nascita del Pd, che apriva una fase costituente. Non si poteva pensare che ne venisse una banale sommatoria di due antiche culture politiche, con ciascuna componente statica nella sua identità. Fatalmente sarebbe nata una cosa nuova. E chi non aderì al Pd lo fece nella convinzione che non sarebbe stata una cosa di sinistra. Così è andata, alla fine. Ma quel che conta è che la nascita del Pd avrebbe necessariamente dovuto trovare risposta in una costituente per una nuova sinistra.
Alcuni lo chiesero, e non fu fatto per le pochezze della sinistra che era allora in campo. Ma questa è, ancora oggi, l’esigenza. Non basta prendere la bandiera per singole categorie, lotte sociali o battaglie contrattuali, per quanto importanti siano.
La domanda sociale esiste. Come è stato notato su queste pagine, è in atto nel paese un vasto processo di redistribuzione. L’impoverimento di vaste fasce di popolazione e la proletarizzazione del ceto medio, la perdita dei diritti, la precarizzazione, la riduzione delle tutele, l’interruzione dell’ascensore sociale ne sono espressione. Tutto questo trova occasione nella crisi, ma non ne è necessariamente effetto. Lo diventa per le scelte di governo, mentre altre soluzioni sarebbero possibili. Ma come formularle e metterle competitivamente in campo se non attraverso la politica, e attraverso un progetto complessivo che parli al paese e si candidi in prospettiva a governarlo?
C’è bisogno di politica, e di una sinistra che faccia politica. Ma nella realtà di oggi la politica si fa nelle istituzioni. Il resto è contorno. La prova è Grillo, che proprio arrivando nelle istituzioni ha avuto per un momento dopo il voto del 2013 la possibilità di prendere in mano i destini del paese. Quella era la partita decisiva, e la storia d’Italia poteva cambiare. È mancata l’intelligenza per cogliere l’occasione, e il Movimento 5 stelle è stato condannato alla marginalità politica, e all’inseguimento dell’avversario. Purtroppo, il dilettantismo non paga, in teatro come nella vita reale.
La partecipazione che conta si svolge nelle istituzioni. Chi ne controlla i numeri alla fine vince. Questa riduzione forzosa è già in atto, con il tramonto delle convenzioni e delle prassi che aprivano l’indirizzo politico di governo alla consultazione di soggetti sociali, oggi utilizzati al più a copertura di un potere autoreferenziale. Le riforme che si prospettano vanno ancor più in tal senso.
Riforme costituzionali ed elettorali volte a ridurre la rappresentatività delle assemblee parlamentari e azzerarne l’autonomia quale altro significato possono avere che concentrare il potere reale nelle stanze del governo? Cosa dobbiamo aspettarci dalla annunciata legge sui partiti? E cosa significa una riforma della Rai che riporta il servizio pubblico nelle mani dell’esecutivo in dispregio di una quarantennale giurisprudenza della Corte costituzionale, come ha chiarito su queste pagine Vincenzo Vita? Controllare le istituzioni da un lato, la comunicazione dall’altro: sono queste le chiavi di tutti i populismi plebiscitari. Che sono geneticamente antidemocratici, in qualunque forma.
Il mantra di Landini è che non vuole fare un partito, e si capisce benissimo perché. Ma di fare politica ha bisogno. Un progetto lo ha, efficace, ed è la Costituzione e il ripristino dei suoi valori essenziali. Siamo assolutamente d’accordo e pronti a ogni battaglia. Ma politica si fa davvero solo in forme organizzate. Con militanti, gruppi dirigenti, discussioni non occasionali di obiettivi e metodi di lotta. Senza, ci sono solo iniziative che per quanto meritorie lasciano il tempo che trovano.
Quante volte abbiamo visto che non basta portare in piazza milioni di persone, o raccogliere firme per proposte di legge di iniziativa popolare, e persino di vincere referendum, come quello sull’acqua? Di certo non ci si può restringere nell’orizzonte del sindacato o di parti di esso, o in una rete fluttuante di associazioni, per quanto meritorie e volte al bene. O peggio chiudersi nelle ristrette mura di una sinistra Pd divisa in correnti che via via diventano spifferi, tra quelli che si ostinano a dichiarare casa propria un partito che li vede come occupanti abusivi.
Ancora oggi, è indispensabile una mossa costituente per un nuovo soggetto politico della sinistra. Poi possiamo anche cancellare la parola partito dal vocabolario.
Il che cosa va bene. Ma il come Landini deve ancora dircelo. E non si illuda di avere a disposizione tempi lunghi.
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