Cultura

L’anarchia è una pepita d’oro

L’anarchia è una pepita d’oroMichel Onfray

Scaffali "Il postanarchismo spiegato a mia nonna" di Michel Onfray, edito da Eleuthera

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 31 luglio 2013

Sarebbe far torto a un filosofo antidogmatico come Michel Onfray accontentarsi di riassumere i contenuti di questo piccolo libro – Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, elèuthera, pp. 96, euro 10 -, evitando un confronto critico, per quanto veloce, con le diverse tesi che lo intridono. Se la varietà della galassia anarchica è davvero grande, se il suo «corpus è un’immensa miniera a cielo aperto in cui si trovano pepite d’oro» anche questo manifesto del post-anarchismo coniuga proposte senz’altro preziose ad altre discutibili.
Restituire linfa al pensiero anarchico senza ripetere il catechismo dei padri fondatori è non soltanto intrinseco a ogni filosofia libertaria, ma è assolutamente necessario per chiunque voglia opporsi con efficacia – e quindi senza moderatismi tattici o cinici- «alla globalizzazione liberale contemporanea, che rappresenta il totalitarismo odierno», con la sua «tesi criminale secondo cui è il mercato che fa la legge». Ma un’intenzione come questa non può accontentarsi di una prospettiva quasi esclusivamente pragmatica e percorsa da un antintellettualismo che la renderebbe monca sin dall’inizio.
Onfray condivide esplicitamente la critica al primato del Concetto elaborata dal ’68 pensiero, del quale ha certamente ragione a elogiare il rifiuto dell’Identità a favore della Differenza ma ha torto nel nascondere che anche il Sessantotto fu percorso da quella vena cristiana e millenaristica che giustamente viene da lui individuata e criticata nell’intera tradizione anarchica. Tradizione che avrebbe il suo limite più consistente in quella compresenza di Risentimento e Utopia che vede in Jean-Jacques Rousseau il suo più significativo esponente: «Sarebbe altrettanto proficuo smetterla di sottoscrivere le tesi roussoviane sulla bontà della natura umana (…). Quando avremo cessato di avallare le ingenue tesi roussoviane, solo allora arriverà il tempo dell’anarchia positiva», che consiste nel rifiuto della palingenesi di chiara impronta cristiana, nella negazione dell’attesa di qualcosa che non siamo destinati a vedere e a vivere: una terra e un’umanità liberate per sempre da ogni male. Si tratta di un vero e proprio mito invalidante, quando invece «il post-anarchismo non è per il domani, ma per il subito».
Un «subito» fatto di radicale immanenza, di costruzione pragmatica di luoghi da vivere e di situazioni da inventare, fatto del rifiuto concreto e quotidiano di quella sottomissione volontaria individuata e descritta da Étienne de La Boétie.
Onfray respinge lo schema che contrappone l’anarchismo comunista di Bakunin a quello individualista di Stirner – quest’ultimo viene escluso dalla linea libertaria e attribuito piuttosto alla logica liberale del puro egoismo, di un solipsismo nel quale «si sente un urlo primordiale emesso da un bambino che pretende di avere tutte le caramelle del negozio» – e propone una diversa contrapposizione, «quella che mette schiena contro schiena una tradizione che ha una genealogia hegeliana (Max Stirner, Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin…) e un’altra che prende le mosse da Étienne de La Boétie (Han Ryner, Sébastien Faure, Elisée Reclus, Pierre-Joseph Proudhon…), più interessata quest’ultima alla positività costruttiva che alla negatività dialettica».
La liberazione comincia quindi non con le avanguardie, con le bombe, con la purezza dell’idea e con la certezza deterministica nell’avvento dell’età d’oro ma con il rifiuto volontaristico di obbedire a ogni autorità che si presenti come trascendente e assoluta e non soltanto come «un’autorità immanente, scelta, contrattuale e liberamente accettata»; con l’accettazione della realtà e dei limiti che essa pone a qualunque sogno; con il diffidare non soltanto del potere come idea ma anche e soprattutto di chi lo esercita, «compresi coloro che si dichiarano anarchici, perché il potere corrompe chiunque ne dispone -senza alcuna eccezione»; con la fiducia nella disobbedienza civile; con la pratica educativa antiautoritaria; con l’accettazione anche dello Stato, quando esso si fa promotore di un’equa ripartizione della ricchezza e diventa difensore dei diritti civili.
Si tratta, come si vede, di una sorta di «moderatismo radicale» e di individualismo aristocratico che vede significativamente in Nietzsche un pensatore che in realtà «ha permeato il pensiero anarchico» e che «fornisce l’anello mancante tra l’anarchia della Belle époque e quella contemporanea, senza per questo confondere l’una con l’altra». A sostegno della sua lettura libertaria del nietzscheanesimo, Onfray ricorda le parole di Emma Goldman, per la quale Nietzsche «in quanto ribelle, innovatore e aristocratico per spirito, «era in pratica un anarchico, e infatti tutti i veri anarchici sono aristocratici».
Dal paganesimo libertario degli antichi filosofi materialisti -punto di riferimento di tutti i suoi libri- alla critica biopolitica del potere contemporaneo, Onfray descrive e propone una utopia dell’immanenza, un post-anarchismo «antiliberale, anticomunista e socialista libertario», convinto che se la rivoluzione ci sarà, essa «non arriverà dall’alto, con la violenza, il sangue e il terrore, non sarà imposta dal braccio armato di un’avanguardia «senza fede né legge» (…) ma dal basso, in modo immanente, contrattuale, capillare, rizomatico, esemplare».
Una sintesi che funziona molto bene per una nonna ma che per essere compresa e praticata avrebbe bisogno di confrontarsi assai più a fondo con la complessa elaborazione oggi in atto nel plurale e differenziato arcipelago del pensiero libertario. Ma forse più di questo non era possibile chiedere a un libro che per metà consiste in un «autoritratto con bandiera nera», in un’autobiografia rivolta a dare fondamento esistenziale alle proposte che vengono formulate soprattutto nella seconda parte del volume.

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