A cinquant’anni dal Gattopardo (1963), il film più popolare e discusso di Luchino Visconti, tratto dall’altrettanto popolare e discusso romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), è opportuno tornare sulle questioni sollevate dal libro e dal film per varie ragioni. La prima, circostanziale, riguarda il fatto che la Fondazione La Colombaia di Luchino Visconti, collocata nella villa di Ischia che fu l’ultima dimora del regista, centra sul rapporto tra letteratura e cinema l’edizione 2013 del Festival Visconti (24 luglio-1 agosto); la seconda, sostanziale, è che, dopo cinquant’anni di polemiche sul valore dello stupendo romanzo di Tomasi (chiuse, a fine Novecento, dalla stroncatura del romanzo e del suo più fine critico, Francesco Orlando, da parte di Asor Rosa su «La Repubblica», nel 1998), l’analisi di questo misterioso, bifronte e benjaminiano angelo della storia che è Il Gattopardo merita di essere ripresa: specie oggi, epoca in cui l’inizio del futuro sembra coincidere più che mai con la distruzione e la fine di ogni passato.

L’iperuranio della realtà storica

Non c’è aspetto più sommerso, nella cultura e nella sensibilità attuale, di quello che potrebbe essere chiamato sentimento del tempo: forse perché ogni inizio e fine di secolo genera ossessioni apocalittiche; forse perché oggi la crasi che schiaccia l’inizio d’un epoca sulla fine di un’altra è subìta, esorcizzata, fuggita, ma non rappresentata. È proprio questo sentimento ad essere invece superbamente rappresentato nel Gattopardo, attraverso la relazione tra un particolare individuo e la storia. Ad osservare i meccanismi sociali implicati dall’impresa dei Mille e dalla caduta dei Borboni è, nel romanzo, il vecchio principe Fabrizio Corbera di Salina. La contrapposizione tra questi e il processo risorgimentale è quella, irriducibile, tra il sentimento individuale e al contempo cosmico della morte e la singola fase storica, che non si lascia afferrare dall’occhio umano se non nel suo essere realtà effettuale. La capacità di stare nella realtà degli effetti, consistente nell’agire il cambiamento per conservare il proprio potere, è la realpolitik teorizzata e praticata dal nipote del Principe, Tancredi: atteggiamento di cui il vecchio Salina riconosce al contempo l’efficacia momentanea e il generale effetto distruttivo. Il Risorgimento delle grandi idealità è, nel romanzo, un iperuranio inconoscibile, mentre le vicende umane restano chiuse nelle uniche due dimensioni sperimentabili: quella della realpolitik (lo stare nei fatti e tentare di dominarli) e quella contemplativa del pessimismo cosmico e lucreziano del Principe, per il quale la storia politica non può andare oltre la vittoria, occasionale e transeunte, di una battaglia.

La relazione tra il Principe di Salina e la realtà storico-politica non è, infine, che quella della separazione: poiché, come spiegò il grande Ernesto De Martino, sanare la fattura tra individuo e storia è possibile solo attraverso quella che Leopardi chiamò la fede in «idee eterne», politiche come religiose : fede, questa, tanto centrale per la cultura di metà Novecento, quanto inesistente per Principe di Salina.

Chi ha fede nella storia esorcizza il pessimismo di chi nella storia non crede. Nell’Ottocento Leopardi era stato liquidato come pessimista perché malformato fisicamente; nel Novecento Tomasi fu liquidato come antiprogressivo perché conservatore e aristocratico. Con l’aggravante che, in virtù del vecchio adagio crociano per cui la storia è sempre contemporanea, l’intuizione tomasiana di certi elementi ideali retrivi che animarono il Risorgimento, oggi fertile terreno di ricerca per i nostri migliori storici (ad esempio, Alberto Mario Banti nel suo La nazione del Risorgimento, Einaudi) non poteva non scandalizzare la cultura egemone del secondo Novecento. E dunque l’entusiasmo del borghese. Bassani, che nell’introduzione alla prima edizione presso Feltrinelli del Gattopardo (1958) aveva giudicato «acutissima» la «percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea» espressa da Tomasi, non poteva aver ragione della reazione marxista: quella di Vittorini, che aveva rifiutato la pubblicazione del romanzo presso Einaudi, e poi, all’indomani dell’edizione Feltrinelli, quella di Sciascia e di Alicata. Risconoscendo in Tomasi la cecità dell’aristocratico che ha «scarso interesse per i problemi sociali» e che considera la realtà siciliana «un’astrazione geografico-climatica», Sciascia coglie e deforma il punto: Tomasi legge la storia in chiave cosmica e lucreziana. Il piano politico, col suo giusto e il suo sbagliato, è sovrastato dal grande motore naturale del declino e della rovina. Ecco perché, come dice Tomasi in una lettera del 1957 all’amico Enrico Merlo, il cane del Principe, di nome Bendicò, «è quasi la chiave di tutto»: la sua morte, ultimo ed emblematico anello della catena di dissoluzione dei Salina, conclude il romanzo con una frase che lo rivolge all’indietro, verso fonti leopardiane: «tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida». Sembra qui di ritrovare, coniugata al presente, la profezia cosmica che chiude il Cantico del Gallo Silvestre di Leopardi: «così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale (…) dileguerà e perderassi».
Dal Gattopardo di Tomasi, distillato di letteratura novecentesca per il rapporto proustiano tra tempo soggettivo, storico e cosmico, e per il tema manniano del declino storico come disfacimento dinastico, Visconti non poteva prescindere. Il cinema, per questo regista, fu una provincia della letteratura: nel 1941, quando si viveva una situazione opposta a quella attuale e, nel rapporto tra letteratura e cinema, l’arte egemonica era la letteratura, Visconti si affacciò al cinema schierandosi a favore di questa egemonia: «Una recente polemica sui rapporti tra letteratura e cinematografo mi ha trovato spontaneamente nella schiera di coloro che hanno fede nella ricchezza e nella validità, per il cinema, di una ispirazione letteraria». La produzione viscontiana, costantemente animata da questa tensione letteraria, sta anche a testimoniare che una radicale sfiducia nella ricomposizione della frattura tra individuo e storia può coesistere con una solida cultura marxiana.

Dissoluzioni dinastiche

Visconti, aristocratico come Tomasi, si affaccia però al cinema da militante comunista. Dopo la guerra – e dopo la prima produzione realistica – il regista ha alle spalle la lotta partigiana, la prigionia e la tortura: eppure non può abbracciare fedi «in una storia politica progressiva che riscatti gliuomini dalla loro condizione esistenziale. Proprio dopo la guerra, il tema principale della sua produzione diventa quello della Götterdämmerung, della morte per dissoluzione storica «di un’epoca e di un mondo amato e odiato» (L. Micciché, L. Visconti. Un profilo critico, Marsilio), soprattutto nella trilogia tedesca (La caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig). Il Gattopardo di Visconti non è comprensibile se non viene avvicinato a questo ciclo, improntanto ad una lettura della storia come dissoluzione delle stirpi e come catena di sangue e distruzione ispirata a grandi fonti letterarie. Visconti avrebbe voluto inserire nel ciclo tedesco un film tratto da Buddebrook di Thomas Mann, romanzo di degenerazione biologico-morale di una grande famiglia della borghesia tedesca. Il progetto rimase irrealizzato, ma il regista dovette riconoscere nel Gattopardo quella rappresentazione biologico-dinastica, prima che storica e sociale, della decadenza, che era il grande tema dei Buddenbrook: il figlio di Tancredi appare al vecchio Principe morente odioso «con la sua doppia dose di sangue Malvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese» immesse nella stirpe dal matrimonio di Tancredi con la borghese Angelica, proprio come al senatore Thomas, ultimo vero rappresentante della dinastia mercantile dei Buddenbrook, appare suo figlio Hanno, derazzato a causa del gene meridionale ed artistico immesso nella famiglia dalla madre – e moglie del senatore – Gerda.

La storia umana non è, nella realtà individuale, che il disseppellimento di una identità arcaica e del suo richiamo: su questo tema, Tomasi edifica lo stupendo racconto Lighea(1957), nel quale un vecchio grecista riconosce fine e inizio della propria realtà vitale nel gesto con cui una sirena, svelatasi a lui nel mare siciliano, lo invita a raggiungerlo. Questo gesto è ciò che unisce Visconti a Tomasi: è lo stesso gesto con cui Tadzio, il misterioso adolescente di Morte a Venezia, indica qualcosa di lontano – la morte, la bellezza, l’origine – nel mare e nella luce. Per Visconti, come per Tomasi, la frattura tra individuo e storia non è mai superabile attraverso la storia, ma solo, momentaneamente, attraverso la funeraria ipnosi esercitata da questo invisibile luogo originario.