L’argomento «droga» è sempre scivoloso, e affrontarlo con pragmatismo e serietà richiede un coraggio non sempre a disposizione. Ecco perciò che anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, che non è certo Salvini, trovandosi a Torino, città martoriata dal mercato degli stupefacenti – sempre più ampio, remunerativo e pericoloso in ogni città -, alla domanda dei giornalisti su come il governo giallorosso pensi di affrontare il problema degli spacciatori che in alcune piazze dettano legge anche sotto gli occhi delle forze dell’ordine, ha annunciato la più ovvia (apparentemente) delle soluzioni. «Noi siamo per la certezza del diritto e della pena – ha risposto – e quindi nel prossimo Consiglio dei ministri porrò la questione dell’inasprimento della pena per chi reitera il reato di spaccio».

Un annuncio che lascia un po’ interdetti perché l’art. 73 del testo unico sulle droghe (L. 309/90), anche dopo l’intervento della Corte costituzionale che nel 2014 ha cancellato la legge Fini-Giovanardi, prevede pene che vanno dai 6 ai 22 anni di carcere per gli spacciatori, soprattutto se recidivi (da 1 a 6 anni per i fatti di «lieve entità»). E infatti, la popolazione penitenziaria è composta per un terzo di persone che hanno violato le leggi sulle droghe. Spesso, tossicodipendenti.

Ma la titolare del Viminale ha motivato così la sua posizione: «Quando un pusher viene arrestato, ritrovarlo il giorno dopo nello stesso angolo di strada a delinquere scoraggia i cittadini e demotiva anche le forze dell’ordine che fanno un’attività complessa. Per questo, nei tempi e nei modi giusti, porrò il problema almeno in fase di reiterazione del reato. Certo – ragiona Lamorgese – non possiamo portare in carcere tutti quelli che arrestiamo perché modificare la norma in questi termini sarebbe complicato, ma almeno in fase di reiterazione del reato è un impegno che adotteremo non solo per coerenza con le norme ma anche per rispetto a cittadini e forze dell’ordine».

Va chiarito però che la ministra, a Torino per sottoscrivere l’accordo per la sicurezza integrata e lo sviluppo, assieme alla sindaca Appendino, agli enti locali, alla Confcommercio e ai rappresentanti religiosi e dell’associazionismo, non si è soffermata solo alla questione repressiva ma ha allargato il discorso al ruolo delle scuole, dello sport, delle famiglie, delle associazioni e pure degli oratori. Peccato non l’abbia neppure sfiorata l’idea di parlare di legalizzazione delle sostanze leggere. Cosa che – a detta perfino della Direzione nazionale antimafia, per esempio – eliminerebbe parte del problema alla radice.

Chissà, magari la ministra che oggi a Roma fortunatamente si occuperà di sicurezza firmando un protocollo in prefettura con la Camera di commercio, l’Acea (partecipata del Comune per l’energia) e l’Enel al fine di illuminare le strade di periferia romane durante la notte con le luci delle vetrine, tornerà con più calma sull’argomento. E ragionando meglio su come combattere lo spaccio e la criminalità ad essa collegata, alzerà lo sguardo verso un traguardo già raggiunto con soddisfazione in molti Paesi democratici, perfino lì dove il proibizionismo è nato, negli States.