L’amore tossico a Milano
E’ arrivato fresco come un film in bianco e nero l’annuncio, che pareva di Lercio, di un salone dell’auto all’aperto a Milano e Monza, chiamato MiMo (finanziato dalla Regione con […]
E’ arrivato fresco come un film in bianco e nero l’annuncio, che pareva di Lercio, di un salone dell’auto all’aperto a Milano e Monza, chiamato MiMo (finanziato dalla Regione con […]
E’ arrivato fresco come un film in bianco e nero l’annuncio, che pareva di Lercio, di un salone dell’auto all’aperto a Milano e Monza, chiamato MiMo (finanziato dalla Regione con 200 mila euro). In molti abbiamo pensato che potesse essere satira: ogni città italiana è un autosalone all’aperto persino nei posti di maggior pregio, a Roma per esempio persino l’ansa barocca che il Tevere disegna davanti al Vaticano (sapete, Bernini, Michelangelo, Canova, robetta così). Invece era vero: per tre giorni automobilone di ogni fattura hanno mostrato le loro lamiere in pieno centro pedonale a Milano. Iconografica la postazione sotto al Duomo, che per l’occasione ha scalzato la prima postazione del bike sharing meneghino.
E non finisce qui: il comune, che ha dato il patrocinio a questa mostruosità, ha elargito uno sconto di 365.000 euro (dai 437.000) sulla concessione di suolo pubblico; a seguire l’evento addirittura Rai Radio 1, che ha martellato con claim per almeno una settimana prima, e poi servizi live e collegamenti nelle varie rubriche della principale emittente del servizio pubblico.
Ma non è sull’evento in sé che vorrei richiamare l’attenzione, tranne sottolineare che il pubblico era scarso. Ciò che invece mi interessa è la specie di insorgenza che sto notando da quando si parla, a mio parere prematuramente, di fine della pandemia e dalla conseguente inondazione di messaggi di ripartenza, ripresa, ricominciamo, abbracciamoci ecc. Un fanciullesco entusiasmo che vedete facilmente intorno a voi. E che è utilizzato a pieni polmoni dal mondo automotive. «Siccome stiamo per ripartire – è il loro ragionamento di marketing – ripartiamo a motore; e dato che ci chiedono di essere ecologici gli piazziamo sotto al cofano la motorizzazione ibrida o totalmente elettrica ed ecco che l’automobile diventa la migliore amica del lombrico albino della Patagonia». Questo discorso va avanti da parecchi mesi ma complice l’uscita presunta dal tunnel sta assumendo proporzioni da fanfara, pari agli Europei di calcio (ps: la tragedia sfiorata di Eriksen a me sembra profondamente simbolica).
Il mondo automotive ha sfoderato un’aggressività che rasenta la violenza. Hanno un’esperienza affabulatoria enorme, hanno una montagna di soldi e una montagna di rapporti istituzionali; ma soprattutto hanno un alleato enorme: il cuore degli italiani. La nostra società contadina si innamorò oltre 50 anni fa dell’automobile perché sapeva cos’era la fatica e comprensibilmente la voleva scansare, fa parte della nostra storia di specie. Da allora in poi al senso si è aggiunta la fabulazione, la personalizzazione del mezzo, la sua umanizzazione. Questa narrazione è andata avanti inalterata, rendendoci schiavi (i bambini accarezzano le Ferrari) e oggi ha uno scatto in più: la novità è che quei geni sono riusciti a legare l’oggetto in vendita alla sensibilità ecologica del momento. Siccome bisogna cambiare, e non ce lo chiede l’Europa ma il pianeta intero, il cambiamento è? Sempre lo stesso oggetto, lievemente rivisto. E te lo sbattono in faccia con una protervia mai vista prima. Ogni claim che sento è la stessa solfa: «Il mondo cambia – dice la voce maschile grave e impostata-, cambia anche tu: compra la nuova Xyz ibrida, Tan Taeg eccetera». Il cambiamento è affidato alla stessa carrozza personale che fa sprofondare vite, strade, tempo, socialità, città d’arte. E Beppe Sala, finto European Green, gli fa pure lo sconto per parcheggiare in Duomo. Anne Hidalgo lo sgombra, il centro di Parigi. Altra levatura.
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