L’America e il suo doppio
C'era una volta a .. Hollywood Sharon Tate e la Manson family, le ossessioni «vintage» di Tarantino e la realtà dell’immaginario
C'era una volta a .. Hollywood Sharon Tate e la Manson family, le ossessioni «vintage» di Tarantino e la realtà dell’immaginario
Ci sono due scene magnifiche in C’era una volta a… Hollywood: una mostra Sharon Tate (Margot Robbie) entrare nel cinema dove proiettano il film (The Wrecking Crew – Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm) di cui è tra i protagonisti; con la gioia di una bimba davanti alle carte colorate dei regali di compleanno si guarda sui manifesti, varca la soglia buia, si siede in sala. Sorride, ride, si commuove vedendo quell’altra sé stessa sullo schermo. La seconda è quando Brad Pitt, ovvero Cliff Booth, stuntman e amico del cuore dell’attore in declino Rick Dalton – Leonardo Di Caprio – arriva al ranch dove vive la Manson family. È ignaro di chi siano quegli «hippy» come la ragazzina a cui ha dato un passaggio e che vede sempre trafficare in giro – bella, bellissima, dopo pochi minuti mentre lui sta alla guida gli propone un pompino (respinto). L’atmosfera è strana come i loro sguardi ma lui insegue i suoi ricordi: quel posto, il tipo a cui appartiene e che vorrebbe salutare è dove ha lavorato, lo Spahn Movie Ranch dei western di cui l’amico era la star, peraltro televisiva: un’altra epoca, un altro cinema, «C’era una volta Hollywood» … Già, ma quale? La bellezza di queste sequenze è il sentimento che le attraversa, una malinconia dolce, diversa dalla nostalgia «vintage» di Tarantino per qualcosa che non ha vissuto alla prima persona – pure se era bambino all’epoca in cui si ambienta il film come ha ripetuto più volte – su cui la sua poetica si fonda. In quelle scene affiora la grana del tempo, qualcosa che va oltre l’autore, il cortocircuito tra l’America e il suo immaginario che stava cambiando, e mentre i ragazzi scendevano in piazza contro la guerra in Vietnam la New Hollywood avrebbe messo da parte il cinema di poco prima, i «buoni» e i «cattivi», gli «indiani» e i «cow boy».
SIAMO nell’estate del 1969, quando anche il sogno psichedelico della controcultura è risucchiato nell’incubo di Manson, e Sharon Tate, moglie di Polanski, viene uccisa incinta dalla setta nella sua casa a Hollywood, la notte dell’ 8 agosto, insieme ai suoi amici mentre Polanski stava lavorando a Londra. Poteva andare in un altro modo? Chissà. Ma questa di Tarantino è una fiaba, appunto, e la realtà può mutare, farsi desiderio, fantasmagoria, gioco. Così eccoci con un attore, Di Caprio, a fine carriera, che il troppo alcol ha gonfiato – sul set è inebetito al punto di farsi riprendere anche da una bambina partner saputella – e che l’amico Pitt, macho ma gentile salva dagli imbarazzi. L’agente Al Pacino lo manda in Italia a girare western spaghetti via di fuga per molti come lui vicini al «buco nero» dell’oblio. I suoi vicini di casa sono Polanski (Rafal Zawierucha), regista europeo di successo che ha appena girato Rosemary’s Baby e la bellissima moglie Tate, sono ricchi, felici, cool, inavvicinabili. E poi? E poi ci sono le passioni – compresa la scelta di girare con la pellicola – di Tarantino coltivate, dichiarate, disposte con amore al punto dai «rigirare» sequenze intere di quei film del cuore divorati dal ragazzo del videostore di tanti anni fa. Una leggenda ormai ma cosa è rimasto della ruvida energia di allora?
QUESTO suo nono film appare quasi come la sintesi della sua opera, e per molti il compimento della «maturità», come se contenesse tutti i suoi lavori precedenti proponendone al tempo stesso una «teoria» tra emozione e riflessione su di sé. Forse però questo «cinema nel cinema» adesso ha bisogno di qualcos’altro, di vie di fuga, di conflitti, di giravolte impreviste per non rischiare l’accademismo o la ripetizione fin troppo consensuale.
Quei due passaggi sono il solo scompiglio nella trama, insieme a Los Angeles, con la sua narrazione, in cui vagabondano i due protagonisti, città del cinema, company town e paesaggio americano. Lì, tra quelle pieghe di un qualcosa che è già accaduto, di un istante che sappiamo essere nel «troppo tardi», nella danza fluida tra autentico e artificio, la realtà si manifesta con prepotenza nell’immaginario – o è piuttosto il contrario? – aprendo il film verso altre direzioni. Quali non le sappiamo come non sappiamo cosa sarà in futuro il cinema di Tarantino, qui così vicino al suo personaggio dell’attore. Ma non è questa anche la sfida del cinema oggi?
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