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L’America e i nodi contemporanei

L’America e i nodi contemporaneiAmerica / foto Getty Images

GEOGRAFIE «Divisi», a proposito dell’ultimo saggio di Mattia Diletti edito da Treccani. Un excursus sul piano della partecipazione politica, della polarizzazione sociale, dello scontro culturale. Una parte originale del volume è la ricostruzione di lungo periodo dei processi storici e dei meccanismi politologici che sono confluiti nella crisi attuale

Pubblicato 6 giorni faEdizione del 22 ottobre 2024

Chiarisce subito Mattia Diletti: questo libro (Divisi. Politica, società e conflitti nell’America del XXI secolo, Treccani, pp. 136, euro 16) esce prima delle elezioni negli Stati Uniti proprio perché le tendenze e i conflitti che analizza hanno una profondità e una durata che prescinde dall’esito di quel voto, e continueranno a esistere comunque anche dopo.

Fin dal titolo, il libro mette in evidenza le divisioni profonde e forse ormai inconciliabili che attraversano la società e la politica degli Stati Uniti in questa tesa vigilia elettorale. Ora, non c’è niente di strano o di scandaloso nel fatto che una società così ampia ed eterogenea come quella americana (o come la maggioranza delle società moderne) sia attraversata da divisioni o frammentazioni. Una società dove non esistono o dove non sono tollerate divisioni è pericolosamente vicina a uno stato totalitario, la divisione è l’anima stessa della democrazia.

MA, COME AFFERMA Diletti, «la democrazia è un (fragile) armistizio»: sostanzialmente una macchina che, grazie al riconoscimento della reciproca legittimità e all’esistenza di regole condivise, permette ai conflitti e alle divisioni di esprimersi e di confrontarsi senza spararsi addosso.
Tuttavia, negli ultimi decenni – dal tentativo di impeachment di Clinton all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio – questa macchina ha smesso di funzionare, o funziona in modo sempre più precario. Come scrive l’autore: «Attori politici che rivestono ruoli apicali disconoscono la legittimità dell’avversario a esistere»; negli Stati Uniti e in Europa «emerge l’idea di una democrazia ipermaggioritaria, nella quale a una minoranza vincente – perché questo sono le maggioranze elettorali – è permesso più o meno tutto». E ciò è tanto più vero negli Stati Uniti, dove un arcaico sistema elettorale permette a un candidato di essere eletto pure con una minoranza del voto popolare.

LA PARTE PIÙ ORIGINALE e feconda del libro sta nella ricostruzione di lungo periodo dei processi storici e dei meccanismi politologici che sono confluiti nella crisi attuale, mentre i capitoli finali ne illustrano le conseguenze sul piano della partecipazione politica, della polarizzazione sociale, dello scontro culturale. Scrive Mattia Diletti: fin dall’inizio prendono forma diverse idee di che cosa significa essere americano: «Negli ultimi due secoli l’americanismo è stato al servizio di diverse tradizioni politico-culturali: belligeranti e pacifiste, radicali e moderate, liberali e populiste, inclusive ed esclusive». In un sistema rigorosamente maggioritario e bipartitico, queste differenze possono prendere due forme diverse: quella centripeta dell’appiattimento consensuale in nome del mito del «pragmatismo americano» e della società senza ideologie; o quella centrifuga che tende a radicalizzarle in forma conflittuale.

Queste due modalità si sono alternate nel corso del tempo: l’immagine centrista e bipartisan è diventata ideologia e narrazione dominante anche da noi, ma ben prima dei nostri anni gli Stati Uniti hanno conosciuto divisioni inconciliabili: dopo meno di un secolo di sono spaccati nella più sanguinosa guerra civile della storia, ma basta pensare a certi toni dell’opposizione a Roosevelt negli anni ’30. O andando indietro, nel 1804, alle origini stesse della repubblica: il duello, letterale e sanguinoso, fra il vice presidente repubblicano Aaron Burr e l’ex «padre fondatore» federalista Alexander Hamilton.

È UN PROCESSO di lungo periodo, dunque; ma anche i processi profondi hanno momenti di svolta, e Diletti lo coglie con precisione: è il momento in cui, a metà anni ’90, i repubblicani reagiscono alla prospettiva di un lungo ciclo di vittorie democratiche nelle elezioni presidenziali scegliendo ancora una volta la «strategia della polarizzazione». Non è una novità, dunque, ma stavolta prende una forma relativamente inedita: non tanto, per così dire, «divergenze parallele» come in passato, ma l’asimmetria di un centro che, da Clinton a Obama cerca insistentemente una politica consensuale e condivisa, e una destra repubblicana che la respinge e la rifiuta (così, alla ricerca del consenso bipartisan di Obama sula riforma sanitaria la destra repubblicana risponde con la nascita del Tea Party e la falsa notizia propalata già allora da Trump del birtherism, che punta a delegittimare Obama affermando che non è nato negli Stati Uniti). Viene da dire che più il centro, alla ricerca del consenso, fa propri e occupa temi e territori della destra (penso alla politica di Clinton sul welfare e la «sicurezza») e più la destra, per mantenere uno spazio proprio, è indotta a estremizzarsi. Il resto segue: le divisioni razziali, di genere, di classe, di cultura che da sempre attraversano la società americana (e che storicamente hanno dato vita a forze dialoganti e riformiste, dal movimento dei diritti civili a un vivace e combattivo movimento sindacale) diventano polarità incapaci di confrontarsi, come mostra bene anche il capitolo sulle «guerre culturali».

Ma direi che la polarizzazione più grave – quella che lascia la politica in mano a elite autoreferenziali ed esclusive – è quella che Diletti segnala fin dall’inizio: «il paradosso di una società composta da un numero molto ampio di cittadini» politicamente disinteressati o disinformati, da cui deriva un alto livello di astensionismo: «è un fatto raro che la partecipazione al voto per le elezioni presidenziali superi il 60% degli aventi diritto».
Ora, l’astensionismo è un problema di lunga durata: la percentuale era appena superiore al 60% anche negli intensi e militanti anni ’60 (quando da noi era stabilmente sopra il 90%. Naturalmente, più noi imitiamo il modello americano, più le percentuali si avvicinano). Il nodo sta in gran parte in quelle regole che pretendono di governare una società del 2024 con norme pensate per il 1789.

COSÌ, IL VOTO negli Stati Uniti non è un diritto automatico ma si avvicina molto al nostro concetto giuridico di «concessione», cioè qualcosa per la quale bisogna fare domanda (in tempi e forme variabili da stato a stato) e che può esserti rifiutata; e il meccanismo bipartitico uninominale aggravato dal collegio elettorale finisce per restringere le scelte e rendere il potere politico impermeabile alla volontà polare sui cui teoricamente si fonda. La maggior parte degli americani è a favore di leggi sul controllo delle armi, del diritto di scelta delle donne, dello stop alla fornitura di armi a Israele (The Intercept, 10 settembre 2024); eppure le istituzioni vanno in misura esattamente contraria. C’è un astensionismo che non è apatia, o apatia indotta dalla sensazione che il proprio voto non cambierà niente: è questa, fra lo stato e i suoi cittadini, la divisione più grave.
La partecipazione elettorale è cresciuta, passando dal 54,8% al 61,5% nell’occasione dell’elezione Trump-Biden, quando un numero maggiore di elettori aveva la sensazione che il voto facesse una differenza. C’è solo da sperare che succeda lo stesso anche stavolta.

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