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Lamborghini, rime penzolanti dai ganci della carne

Lamborghini, rime penzolanti dai ganci della carneDaniel Santoro, «El automovil justicialista»

Scrittori latinoamericani Nel suo teatro della violenza, l'autore argentino ospita anche improvvisi squarci lirici e un sarcasmo al servizio del nesso tra corpo, sessualità e politica: «La pianura degli scherzi», da Miraggi

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 27 ottobre 2019

Un peronista militante, oppure un cinico «populista oligarchico». Un eterosessuale che si firmava «una donna col pene», o un omosessuale tenacemente occulto. Un rissoso manipolatore gonfio di alcol e psicofarmaci, o – a detta dell’amico César Aira – un gentiluomo dai modi aristocratici. Uno scrittore consapevolmente marginale e clandestino, noncurante della pubblicazione, o un autore angosciato dal difficile accesso al mercato editoriale. In ogni caso e per ammissione unanime, Osvaldo Lamborghini è stato un genio avvolto da una leggenda nera, forse immeritata, forse abilmente costruita.

Poeta e narratore che in vita pubblicò soltanto tre esili volumetti, a quindici anni dalla morte Lamborghini sembra ancora restìo a lasciarsi canonizzare, nonostante l’edizione postuma dei suoi scritti curata da César Aira, l’esistenza di un pubblico di lettori piccolo ma entusiasta e una vistosa mole di studi critici. Quale seduzione possa esercitare uno scrittore così inafferrabile, ermetico e spiazzante, lo si può ora scoprire grazie alle edizioni Miraggi, che mandano in libreria La pianura degli scherzi (a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto, p. 208, e 17,00) prima traduzione italiana di quattro testi in prosa, ovvero «Il fiordo» e «Sebregondi retrocede», apparsi tra il ’69 e il ’73, accoppiati ai più recenti «La causa giusta» e Le figlie di Hegel.

L’affinità con Sade
Racconto d’esordio, «Il fiordo» affida a ventidue pagine allucinate la scena di «un’orgia ostetrica» (la definizione è di Alan Pauls) in cui una partoriente viene violentata , mentre quanti le stanno intorno si dedicano a un sesso brutale e allo scempio dei corpi altrui. In questa allegoria «peronista e freudiana», disseminata di slogan politici, i nomi sono altrettanti segnali indicatori: le iniziali di Carla Greta Terón, la donna in travaglio, formano la sigla Cgt (Confederación General del Trabajo), quelle del neonato Atilio Tancredo Vacán rimandano al sindacalista assassinato Augusto Timoteo Vandor, il nome dell’umiliato Sebas è l’anagramma di bases, cioè dei militanti traditi e ingannati.

Lamborghini è già tutto in questo inizio, del quale la sua opera successiva costituisce una evoluzione, a cominciare dal racconto «Il bambino proletario» in cui Stroppani, ragazzino povero e vessato dall’istituzione scolastica (la maestra lo chiama Storpiani!, con annesso punto esclamativo) viene violato, mutilato e impiccato da tre coetanei borghesi, mossi da puro e dichiarato odio di classe.

Sfiorando a volte l’illeggibile, apre nel suo teatro della violenza improvvisi squarci lirici, profonde sarcasmo e humor nero, pratica la parodia, mescola i generi sessuali e letterari, ma soprattutto esplora il nesso tra corpo, sessualità e politica, inducendo il filosofo Paul B. Preciado a sottolinearne l’affinità con Sade, poiché entrambi utilizzano «il linguaggio pornografico per descrivere le forti trasformazioni politiche in cui si trovano immersi». Preciado include dunque l’autore argentino nel proprio discorso sul cittadino come «corpo desiderante» e sullo Stato quale «dispositivo camuffato di produzione e costruzione libidinale», mentre Néstor Perlongher, anche lui sensibile al tema del desiderio, non esita a inglobare Lamborghini nell’universo denso e oscuro del neobarroso (termine in cui si fondono barocco e barro, ossia fango), da lui teorizzato; quanto a César Aira, presenta l’opera dell’amico attraverso genealogie e procedimenti che sembrano destinati, in realtà, a illustrare e legittimare la propria personale scommessa letteraria. Tre diversi sentieri interpretativi, tra i tanti che portano a uno scrittore molto studiato ma ancora oggi poco letto, cui Ricardo Strafacce ha dedicato nel 2008 una monumentale e splendida biografia, mappa di un complesso universo esistenziale e letterario.

Se Lamborghini resta un autore senza discepoli né seguaci, per il quale non sempre è possibile stabilire filiazioni e influenze a parte quelle da lui stesso dichiarate (in Le figlie di Hegel ne esplicita alcune, spesso inattese) alcune costanti lo avvicinano ad altri scrittori della scena argentina. La prima, già presente in un testo fondativo della letteratura nazionale, El matadero di Esteban Echeverría, del 1838) è la vena di crudeltà che va ad alimentare, dopo aver attraversato autori come Cambaceres, Arlt, Pizarnik, Fogwill, la prosa di Lamborghini, conferendole una sinistra qualità profetica: la sottomissione e lo strazio dei corpi, l’orgia di sangue, il martirio del «bambino proletario» possono apparire come un riflesso, fattosi arte, del clima politico di allora (la Triple A di López Rega, il massacro di Ezeiza, i sequestri), ma soprattutto sembrano annunciare la violenza inarrivabile della dittatura e lo sterminio di un’intera generazione.

Un avamposto lacaniano
La seconda costante (intrecciata, com’è ovvio, alla prima) è il fil rouge della politica e della militanza, rielaborato però nei termini dell’avanguardia fiorita tra la fine degli anni Sessanta e il colpo di Stato del ’76, della quale Lamborghini fu uno degli esponenti di spicco (era, tra l’altro, membro fondatore della rivista «Literal», avamposto lacaniano in Argentina). Più tardi, quando la politica non sarà che una ferita rimarginata a stento o un profondo senso di stanchezza, per bocca di un personaggio del romanzo breve Le figlie di Hegel lo scrittore dichiarerà la resa su ogni fronte, la vanità di ogni illusione: «per scoprirlo si passa per guerre e rivoluzioni. Per scoprirlo, senza poter rispondere, perché magari non ci sarà̀ di che rispondere, perché forse: non bisogna rispondere».
Solo a una battaglia non metterà mai fine, quella con il linguaggio del quale tenterà di infrangere le resistenze e i limiti, forzandolo a contenere tutto: il lunfardo, i neologismi, la gauchesca, lo stile colto, gli arcaismi, una fitta trama di citazioni nascoste e giochi di parole, il turpiloquio, la rinuncia al senso, la ricerca del puro suono, le distorsioni sintattiche, gli spazi vuoti, una punteggiatura irregolare e sincopata. Non è un caso, dunque, che La pianura degli scherzi sia introdotto da una lunga nota dei bravissimi Barca e Montalto sulla sfida di rendere in italiano un simile virtuoso della lingua: la loro è una piccola lectio magistralis sull’arte di tradurre l’impossibile, che – oltre a fornire numerose piste di lettura – racconta le ragioni di una scelta audace, quella di restituire una parte di «Sebregondi retrocede» all’originaria forma poetica, volta in prosa solo per l’insistenza del suo primo editore. Ed ecco che la nuova scansione delle frasi proietta sul testo una luce improvvisa, ce lo avvicina: un esperimento eterodosso ma riuscito, che ci offre nuove e affascinanti possibilità.

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