Visioni

«Lamb», una bucolica favola horror sulla genitorialità

«Lamb», una bucolica favola horror sulla genitorialitàUna scena da «Lamb»

Al cinema Il film d’esordio dell’islandese Valdimar Jóhannsson, al centro una coppia e la loro scelta. Una ricerca formale avvolgente cede però il passo alla lezione morale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

«Dicono che ora sarà possibile viaggiare nel tempo», racconta Ingvar a pranzo. «Dicono anche come sarà possibile farlo?», replica María con una domanda sarcastica. «No, è solo una cosa teorica. Dicono solo che è teoricamente possibile», insiste il marito che poi aggiunge: «Non che io muoia dalla voglia di conoscere il futuro. A me non dispiace stare hic et nunc». Stare dunque nel qui e ora, nel presente. Lo ribadisce anche María che non è incuriosita nemmeno da un percorso a ritroso.

LA COPPIA di contadini e pastori, lontana dal caos, circondata dalla campagna, con un trattore mezzo guasto, ha preso congedo dagli altri, si è fatta da parte, ha scelto l’esilio volontario, ha preferito un’esistenza dai ritmi lenti, cadenzata dalle stagioni, composta da pochi ed essenziali elementi, dove il passato e il futuro non sono altro che una risposta a ciò che si è appena fatto e a ciò che si dovrà fare nell’immediato. Un elogio della vita campestre, questa è la prima impressione che suscita Lamb, opera d’esordio di Valdimar Jóhannsson, selezionata lo scorso anno al Festival di Cannes (Un Certain Regard). Poi le cose cambiano, la camera volge lo sguardo altrove. Mai fermarsi alle apparenze.

L’EVENTO che muta radicalmente lo scenario è di quelli sbalorditivi. María e Ingvar scoprono che uno degli agnelli appena nati è una strana creatura metà pecora, metà bambina. Così ha inizio il viaggio nel tempo passato, quello stesso che non sembrava possedere alcuna attrattiva. I due recuperano il lettino e gli oggetti che avevano acquistato per la figlia nata morta. La nuova arrivata, l’essere che ha delle forme inaspettate, è eletta immediatamente a simbolo di un riscatto, di un tempo che si era interrotto, di un futuro che sembrava impossibile e che inaspettatamente è tornato a essere il presente, l’hic et nunc. Il film descrittivo sulla vita in campagna si trasforma in una sorta di fantasy, di horror e di favola sulla genitorialità.
Incredibilmente María e Ingvar si mostrano abbastanza impassibili. Nessuno dei due si pone delle autentiche domande, la natura secondo modalità misteriose ha disposto una forma di risarcimento, non vi è altro da sapere. In realtà, un problema esiste, e ha le sembianze di una pecora. Ada, questo il nome che i genitori improvvisati hanno scelto per la neonata, ha una madre biologica che la reclama, ma anche in questa piccola porzione di pianeta, vige la legge del più forte, di chi ha le armi e si prende ciò che desidera senza farsi troppi scrupoli.
Nel secondo dei tre capitoli, entra in scena Pétur, il fratello di Ingvar, inizialmente allibito dalla presenza di una nipotina tra l’umano e l’ovino, e poi a suo agio nel ruolo di zio scapestrato che propone dei fuori programma decisamente più divertenti rispetto al quotidiano di una coppia un po’ noiosa.

SENZA SVELARE ulteriormente la trama di un film che quadro dopo quadro identifica i protagonisti della storia dando maggiori dettagli sul loro vissuto, con l’ingresso di questo terzo personaggio, accanto al racconto di una scelta di vita si manifesta quello di un sacrificio e di un castigo. Questa sovrapposizione fa oscillare lo spettatore tra il piacere del contesto naturale, l’empatia per una coppia che in un certo senso sfida l’ambiente che li aveva accolti, e l’idea che tutto questo non sia altro che una specie di autoflagellazione, l’esecuzione di una pena per un peccato originale. Sarà nel terzo capitolo che tutto diventerà chiaro, persino in modo eccessivo. E questa circolarità che risolve ogni aspetto, è il punto debole di un lavoro che resta a metà tra una ricercatezza formale innegabilmente avvolgente e la lezione morale che emerge in superficie con il susseguirsi degli eventi.

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