The Big Bang Theory ce l’ha insegnato: per i bambini di ieri, i vecchi giocattoli sono un’esca irresistibile. Se i maggiorenni odierni hanno occhi solo per le vetrine immateriali di smartphone, device e console, quelli degli anni ’80 e ’90 guardano ancora alle icone vintage dell’infanzia. Le statistiche parlano chiaro. Secondo i dati raccolti dall’agenzia di ricerche di mercato Circana per Cnn network, al giugno del 2023 i cosiddetti Kidults coprivano il 17% delle vendite totali di giocattoli negli Stati uniti, con un balzo di otto punti percentuali rispetto al 2019. Un mercato che fino a un lustro fa poteva contare su pochi, danarosi appassionati e che oggi, tra crisi climatiche ed economiche, pandemie e guerre, ha tradotto le ansie di gratificazione di due generazioni in un fenomeno di massa da 6,4 miliardi di dollari solo negli Usa.

IL TUTTO, riproponendo a legioni di consumatori ormai incanutiti marchi anacronistici. Così le scatole di montaggio Lego, già care al momento del lancio, e poi invariabilmente razziate da speculatori pronti a rivenderle a peso d’oro. Così le action figure Mego dei Seventies, tornate in vendita in sordina nel 2018 e oggi protagoniste di edizioni commemorative centrate su repliche perfette dei vecchi super-eroi da 20 cm. Così i Masters Of The Universe Mattel, oggetto di incessanti tentativi di aggiornamento dal loro declino nel 1989 e riportati agli antichi fasti a partire dal 2008 grazie a varie linee di bambolotti sputati a quelli delle origini.

Ora il cerchio si chiude con un illuminante romanzo grafico che racconta i dietro le quinte di questi grandi ritorni e il motivo della loro ritrovata popolarità: L’effetto He-Man – Come i produttori di giocattoli americani ti vendono i ricordi della tua infanzia. Il volume di 276 pagine edito da Bao Publishing porta la firma di Brian «Box» Brown, collaboratore classe 1980 di «Playboy» e «The New Yorker» e già firma delle biografie grafiche del wrestler André The Giant e del comico Andy Kaufman. Un autore post-pop fino in fondo, Brown, perfettamente consapevole del proprio feticismo nei confronti dei vecchi giocattoli ma anche del fondamentale cinismo del sistema che li crea e li produce. Perché è questa la tesi: dalle prime licenze Disney in poi, dietro ogni cimelio a misura di Kidult non ci sono le insondabili alchimie di un Mister Hoola Hoop, ma le strategie sottili e ciniche delle multinazionali.

Parola chiave, propaganda, arma creata a tavolino all’inizio del secolo breve con il contributo dell’ineffabile Edward Bernays a valle dell’affondamento del Lusitania per spingere gli Stati uniti verso il Primo conflitto mondiale, ma efficacissima anche in tempo di pace per piazzare merci perniciose a partire dal tabacco. Vittime predestinate, i bambini, più influenzabili degli adulti per natura e oggetto di un martellamento che passa dai primi esempi di merchandising, all’affermazione delle prime tv commerciali e ai programmi sponsorizzati, fino alla feroce deregulation e alla perfetta identificazione tra tv dei ragazzi e pubblicità dell’America di Reagan.

È appunto l’epoca d’oro dei personaggi di Star Wars della Kenner, scala ideale per interfacciarsi con astronavi e veicoli sempre più grandi, elaborati e costosi. O dei G.I. Joe Hasbro, dei già citati Masters e dei Transformers, supportati dai periodici a fumetti della Marvel e da serie animate concepite per perpetuare il germe della bulimia consumistica di generazione in generazione…

NON POTEVA finire lì. E infatti, non è mai finita, dato che come detto i giocattoli più amati continuano a tirare, come dimostra anche il box-office di Barbie, 1,4 miliardi di dollari di incasso globale e chissà quante bambole vendute. È un ennesimo détournement che come in un flashback ci rimanda direttamente all’ultima battuta pronunciata a un passo dalla fine dal poco raccomandabile Charles Foster Kane in Quarto Potere di Orson Welles: «Rosabella…»
Era il 1941, e il cinema già ci sbatteva in faccia l’inspiegabile riflusso verso l’infanzia che il capitale oggi continua a mandare in loop per fregarci. Siamo tutti bambini traumatizzati, noi nerd. Tutti collezionisti. Tutti in fondo colpevoli. Perché, sì, è un gioco, ma dannatamente serio.