L’amara Toy Story dei nostalgici «Kidults»
Un giro d’affari da 6,4 miliardi negli Usa, con vecchi marchi che vengono riproposti ad hoc. Un fenomeno in costante crescita, analizzato nel libro di Brian «Box» Brown edito da Bao, «L’effetto He-Man»
Un giro d’affari da 6,4 miliardi negli Usa, con vecchi marchi che vengono riproposti ad hoc. Un fenomeno in costante crescita, analizzato nel libro di Brian «Box» Brown edito da Bao, «L’effetto He-Man»
The Big Bang Theory ce l’ha insegnato: per i bambini di ieri, i vecchi giocattoli sono un’esca irresistibile. Se i maggiorenni odierni hanno occhi solo per le vetrine immateriali di smartphone, device e console, quelli degli anni ’80 e ’90 guardano ancora alle icone vintage dell’infanzia. Le statistiche parlano chiaro. Secondo i dati raccolti dall’agenzia di ricerche di mercato Circana per Cnn network, al giugno del 2023 i cosiddetti Kidults coprivano il 17% delle vendite totali di giocattoli negli Stati uniti, con un balzo di otto punti percentuali rispetto al 2019. Un mercato che fino a un lustro fa poteva contare su pochi, danarosi appassionati e che oggi, tra crisi climatiche ed economiche, pandemie e guerre, ha tradotto le ansie di gratificazione di due generazioni in un fenomeno di massa da 6,4 miliardi di dollari solo negli Usa.
IL TUTTO, riproponendo a legioni di consumatori ormai incanutiti marchi anacronistici. Così le scatole di montaggio Lego, già care al momento del lancio, e poi invariabilmente razziate da speculatori pronti a rivenderle a peso d’oro. Così le action figure Mego dei Seventies, tornate in vendita in sordina nel 2018 e oggi protagoniste di edizioni commemorative centrate su repliche perfette dei vecchi super-eroi da 20 cm. Così i Masters Of The Universe Mattel, oggetto di incessanti tentativi di aggiornamento dal loro declino nel 1989 e riportati agli antichi fasti a partire dal 2008 grazie a varie linee di bambolotti sputati a quelli delle origini.
Ora il cerchio si chiude con un illuminante romanzo grafico che racconta i dietro le quinte di questi grandi ritorni e il motivo della loro ritrovata popolarità: L’effetto He-Man – Come i produttori di giocattoli americani ti vendono i ricordi della tua infanzia. Il volume di 276 pagine edito da Bao Publishing porta la firma di Brian «Box» Brown, collaboratore classe 1980 di «Playboy» e «The New Yorker» e già firma delle biografie grafiche del wrestler André The Giant e del comico Andy Kaufman. Un autore post-pop fino in fondo, Brown, perfettamente consapevole del proprio feticismo nei confronti dei vecchi giocattoli ma anche del fondamentale cinismo del sistema che li crea e li produce. Perché è questa la tesi: dalle prime licenze Disney in poi, dietro ogni cimelio a misura di Kidult non ci sono le insondabili alchimie di un Mister Hoola Hoop, ma le strategie sottili e ciniche delle multinazionali.
Parola chiave, propaganda, arma creata a tavolino all’inizio del secolo breve con il contributo dell’ineffabile Edward Bernays a valle dell’affondamento del Lusitania per spingere gli Stati uniti verso il Primo conflitto mondiale, ma efficacissima anche in tempo di pace per piazzare merci perniciose a partire dal tabacco. Vittime predestinate, i bambini, più influenzabili degli adulti per natura e oggetto di un martellamento che passa dai primi esempi di merchandising, all’affermazione delle prime tv commerciali e ai programmi sponsorizzati, fino alla feroce deregulation e alla perfetta identificazione tra tv dei ragazzi e pubblicità dell’America di Reagan.
È appunto l’epoca d’oro dei personaggi di Star Wars della Kenner, scala ideale per interfacciarsi con astronavi e veicoli sempre più grandi, elaborati e costosi. O dei G.I. Joe Hasbro, dei già citati Masters e dei Transformers, supportati dai periodici a fumetti della Marvel e da serie animate concepite per perpetuare il germe della bulimia consumistica di generazione in generazione…
NON POTEVA finire lì. E infatti, non è mai finita, dato che come detto i giocattoli più amati continuano a tirare, come dimostra anche il box-office di Barbie, 1,4 miliardi di dollari di incasso globale e chissà quante bambole vendute. È un ennesimo détournement che come in un flashback ci rimanda direttamente all’ultima battuta pronunciata a un passo dalla fine dal poco raccomandabile Charles Foster Kane in Quarto Potere di Orson Welles: «Rosabella…»
Era il 1941, e il cinema già ci sbatteva in faccia l’inspiegabile riflusso verso l’infanzia che il capitale oggi continua a mandare in loop per fregarci. Siamo tutti bambini traumatizzati, noi nerd. Tutti collezionisti. Tutti in fondo colpevoli. Perché, sì, è un gioco, ma dannatamente serio.
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