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L’amara strada della corte dei miracoli

L’amara strada della corte dei miracoli

Fuori Concorso Dal maestro del cinema messicano un lavoro di fiammeggiante desolazione

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 11 settembre 2015

Giornata latinoamericana alla Mostra con la celebrazione del regista messicano Arturo Ripstein a cui è stata conferita una targa speciale per i suoi 50 anni di carriera, maestro del cinema internazionale fuori concorso quest’anno con il suo nuovo film l’inquietante La Calle de la Amaragura (la strada dell’amarezza).La sua è stata una lunga carriera a cominciare dal suo esordio nel ’65 con Tiempo de morir da un soggetto di Gabriel Garcia Marquez e Carlos Fuentes, in un momento di grande rinnovamento della cinematografia messicana che allora era una potenza commerciale, con movimenti di cinema sperimentale, fondazione di nuove riviste nate nell’ambito universitario. Figlio di un produttore, Ripstein entra giovanissimo negli studi («a soli tre anni», racconta) e tutta la sua immaginazione si svilupperà sui set, ma anche attraverso gli studi di legge, storia e storia dell’arte, dando ai suoi racconti uno spessore che attinge molto spesso dalla letteratura latinoamericana, come sarà con Nessuno scrive al colonnello (’99) o Un lugar sin limites (’77) dal romanzo di José Donoso.

Sarà anche aiuto di Bunuel nell’Angelo Sterminatore e Simon del deserto. Una lunga elaborazione di quello che in Europa appare come materia melodrammatica ma che potrebbe piuttosto essere definito realismo latino. Lui stesso ha definito il suo cinema molto simile al neorealismo: fatti e personaggi che sembrano frutto di una fantasia oscura e barocca sono presi dalla tradizione orale, dalla cronaca, come nel caso di La calle de la Amargura, che racconta un fatto vero: come furono uccisi nel 2009 Alberto e Alejandro Jimenez, due gemelli nani lottatori di wrestling, da due prostitute troppo avanti con gli anni per avere ancora un posto sulla strada. Le due righe in cronaca diventano nelle sue mani una sontuosa tragedia in bianco e nero. «Quando ho cominciato a girare – dice il regista – tutto il cinema era in bianco e nero, e non riesco a concepire il volto del Messico in altro modo. Stimola l’immaginazione dello spettatore, ho fatto così tutti i miei film. Picasso che era uno che se ne intendeva, diceva che il colore debilita».

Un bianco e nero che diventa minaccia, sordidi pensieri, odore di bassifondi, ombre come capestri, ubriacature epocali, le mille sfumature della miseria. Certo Fritz Lang e Murnau entrano nel suo immaginario, ma accanto alla letteratura di Valle Inclan e del picaresco spagnolo, ci tiene a precisare la sceneggiatrice Paz Alicia Garciadiego, moglie del regista e sua collaboratrice da sempre (premio alla sceneggiatura a Venezia nel ’96 per il magnifico Profundo Carmesì). Niente a che fare con il realismo magico latino citato spesso a sproposito, «magnifico sulla carta ma spaventoso sullo schermo». Ripstein concorda: «le iperboli del relismo magico diventano immagini inesistenti».
Non appena compaiono i nanetti nerboruti con maschere da lottatori che non si toglieranno più per tutto il resto del film, entriamo anche noi in quell’universo di ferocia, in quella corte dei miracoli dove ogni personaggio difficilmente arriverà intatto alla fine dei round, postriboli nei vicoli allagati, il viale del tramonto delle puttane un tempo belle come Dolores Del Rio, ora ridotte pelle e ossa e per sopravvivere costrette a portare a elemosinare la nonna in piena demenza senile, un macho che ama travestirsi, mexican girl improponibile ma di un discreto successo negli sgabuzzini con i giovinastri, una pappona più uomo che donna e poi tante preghiere per attirare su di sé una benedizione che non arriverà.

«Mexico Mexicoooo», canta in coda al film Luis Mariano, «si dimentica tutto sotto il cielo del Mexico il paradiso dell’amore», invece il ritmo inarrestabile della perdizione conduce i personaggi a camminare a lungo sull’orlo del burrone prima dell’inevitabile caduta. Anche se poi, dicono, sono cose del destino, tutto passa. «È la storia del nostro paese – dice Paz Alicia – abbiamo senso dell’umorismo, possiamo ridere delle nostre disgrazie, ridiamo e andiamo avanti». Patricia Reyes Spindola, la «Dolores Del Rio dagli zigomi alti» è una delle protagoniste del film, famosissima nel cinema latino, interprete di ben dodici film di Ripstein. Con lei Arcelia Ramirez attrice e scrittrice. Nel fare un bilancio della sua lunga carriera Arturo Ripstein dice: «quelli della mia generazione avevano carriere molto lunghe, facevamo un film dopo l’altro, ti davano una frusta con cui comandare. La cosa mi ha reso felice? Non userei proprio questo termine, ma piuttosto l’essere stato triste, infelice, pauroso, o perché volevo vendicarmi o perché provavo un grande rancore». Motori utili, ma certo senza dimenticare il grande divertimento nel comporre quadri e personaggi che difficilmente si possono dimenticare, poemi dell’infelicità tessuti di euforica immaginazione.

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