L’altro mondo possibile che abbiamo cercato a Genova nel 2001 sembra evaporato. Vent’anni dopo è stato rovesciato nella percezione di un mondo catastrofico. Viviamo in un’impotenza organizzata che non è nuova, né pacificata. Fa parte di una storia che risale agli “anni d’inverno”.

Con questa definizione Félix Guattari, filosofo e psicoanalista francese, ha definito gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo.

La ricerca dell’alterità di un mondo possibile, avvenuta prima e dopo il Sessantotto, è stata “congelata”, ma non domata. Da quel momento sono stati innumerevoli i tentativi di cambiare l’orientamento della “soggettività”, ovvero l’insieme dei processi che legano le forze del desiderio, della creazione e dell’azione ai mondi della produzione, del vivente, delle tecnologie e dei media.

Ci sono state avanzate e ritirate su un campo di battaglia dove si svolge una “guerra di posizione” tra una strategia dell’alienazione nella quale l’individuo si sottomette al modello della soggettività capitalistica e un’altra dell’espressione attraverso la quale ci riappropriamo di uno stato nascente, e singolare, dell’autonomia, della libertà e dell’uguaglianza. Una soggettività non è data in questo conflitto. Bisogna lavorarla, come si fa per l’energia o per l’alluminio. È una costruzione sociale e collettiva, non un’entità individuale predeterminata. Si esprime attraverso prassi politiche, e non solo nelle analisi sul lettino.

Pratichiamo la critica dell’economia soggettiva, e non limitiamoci a quella dell’economia politica, come ritiene un’interpretazione economicistica del marxismo per la quale la soggettività sarebbe una “sovrastruttura” mentre è una realtà produttiva composta da dispositivi, divenire e affetti che si dispiegano al di là dell’individuo, oltre il ricentramento dell’analisi sull’Io, l’adattamento della coscienza alla società e all’ordine significante.

Questo approccio materialistico permetterebbe di comprendere che la soggettività che siamo oggi non è destinata a darsi sempre nel ripiegamento su se stessa o in fantasie repressive, infantilizzanti e identitarie. Lo aveva intuito l’“altermondialismo” per cui la realtà non si univa al possibile nella necessità, ma era la necessità a unirsi al possibile nella realtà. Allora un altro mondo diventava possibile perché si era rotta la continuità di una storia monocausale dove tutto è dentro il Capitale, nulla si dà fuori di esso. Iniziava la crisi della prima fase della globalizzazione: l’“Impero”, o il Washington Consensus. L’appello alla possibilità di un altro mondo rimase però un’enunciazione nelle contestazioni dei vertici globali. L’11 settembre, e la “guerra infinita contro il terrorismo”, spezzarono il tentativo di sganciarsi dal fantasma di un Leviatano onnipotente che decide sulla vita e sulla morte.

Dieci anni dopo, a partire dalla crisi dei subprime e dei debiti sovrani, è spuntato un altro ritornello: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. La frase è stata attribuita a Mark Fisher o a Fredric Jameson, ma è stata scritta dal critico Bruce Franklin in un saggio sullo scrittore inglese James Ballard. È un’istantanea della passività fatalistica, della disillusione e dell’apatia in cui sprofondiamo. Per scuoterci ricorriamo alle categorie dell’apocalisse. Gli attivisti di “Extinction rebellion”, o di “Ultima generazione”, denunciano l’emergenza climatica che mette rischio la vita sul pianeta e invitano all’azione per arrestare il “genocidio delle generazioni più giovani”. Ampio è stato il dibattito sugli effetti di questi aut aut. Da un lato, si dice che il “collasso” è arrivato ed è necessaria una rivoluzione; dall’altro lato, la rivoluzione si blocca davanti a eventi irrapresentabili come la “fine del mondo”.

Nel libro Le tre ecologie (Edizioni Sonda) Guattari ha suggerito un modo diverso di affrontare il problema. Più che ragionare su dualismi binari oppositivi, sarebbe preferibile praticare una prospettiva trasversale che riunifica l’ecologia ambientale con quella sociale e mentale. L’ecologia ha bisogno di un’analisi della politica che ha accartocciato una soggettività in un guscio di paranoie che infestano il “capitalismo fossile”. E ha bisogno di una critica sociale della democrazia fondata sui valori di mercato.

Le tre ecologie si intrecciano grazie agli “operatori della soggettivazione”, coloro che fanno divenire altrimenti la forma capitalistica assunta dalla vita sociale. Tali sono stati gli “altermondialisti”. Il ruolo è stato ricoperto dalle trans-femministe e dai nuovi ecologisti. Molti altri attori si esercitano oggi in maniera puntuale e discreta.

Questi movimenti promuovono la differenza, la singolarità e l’utopia. Producono nuovi ritornelli e contagiano individui, classi e gruppi. Le loro operazioni vanno moltiplicate, trovate altre connessioni, affinché nuovi universi esistenziali autonomi risuonino dappertutto. Il problema non è sapere se organizzarci per costruire nuove macchine di lotta, ma annientare il razzismo, il sessismo o il classismo quando ne costruiamo una.

Una simile possibilità fa schiumare di rabbia i nemici. L’eliminazione del diritto federale all’aborto negli Stati Uniti è la prova della loro violenza. Speculazione, inflazione e guerra in Ucraina hanno rinviato sine die l’azzeramento della produzione di CO2. Si torna a rigassificatori e trivellazioni. Fare emergere la giovinezza del mondo è un duro lavoro politico permanente.