L’alterità, un artefatto politico e sociale di cui diffidare
Nelle questioni politiche succede spesso di accontentarsi: ci si reca alle urne armati di una sorta di bislacca ragionevolezza in base alla quale, viste le condizioni, considerate le variabili, si […]
Nelle questioni politiche succede spesso di accontentarsi: ci si reca alle urne armati di una sorta di bislacca ragionevolezza in base alla quale, viste le condizioni, considerate le variabili, si […]
Nelle questioni politiche succede spesso di accontentarsi: ci si reca alle urne armati di una sorta di bislacca ragionevolezza in base alla quale, viste le condizioni, considerate le variabili, si decide di scegliere «il meno peggio». A forza di accontentarsi succede che i progetti diventano confusi, le soluzioni annacquate, le dighe non reggono più, le resistenze si fanno flebili e in un attimo ci si trova in tempi bui, come in questa Italia di populisti in salsa giallo-verde, di cantori dell’odio verso gli stranieri e di teorici dei respingimenti in mare.
el suo ultimo libro, Somiglianze Una via per la convivenza (Laterza, pp. XXIV-374, euro 24,00) Francesco Remotti – uno dei più importanti antropologi italiani – esorta il lettore a non pacificarsi grazie a quanto potrebbe, a prima vista, sembrare auspicabile: coesistere e coabitare, noi accanto agli altri. Occorre non accontentarsi perché, a ben vedere, la semplice coesistenza, può funzionare anche in un regime di netta divisione fra «noi» e gli «altri»: è sufficiente darsi delle regole e imporre un ordine, come ben sapevano, per esempio, i teorici dell’apartheid sudafricano. Non sempre si arriva a tanto, ma è pur vero che limitandoci a una mera coesistenza ci sarà sempre «il rischio di scivolare dall’indifferenza al disprezzo e oltre».
Per Remotti, allora, è molto meglio «cercare di coinvolgere “noi” e gli “altri” in progetti di vita condivisi»; per ottenere ciò, ovvero per passare dalla coesistenza alla convivenza, occorre che gli altri non siano soltanto «altri», ma soprattutto «simili».
Prima di accompagnare il lettore attraverso un’ideale selva di somiglianze, che si fa strada fra maestri del pensiero presocratico, esempi etnografici e riflessioni della biologia contemporanea, Remotti giustifica la sua proposta teorica e politica non tanto, o perlomeno, non primariamente su un piano etico-morale, quanto su un piano epistemologico, mostrando come nel pensiero occidentale, a partire da Aristotele e Platone, prenda forma quella lotta alle somiglianze che avrebbe condotto l’Occidente ad abbracciare una logica delle identità tutta finalizzata a dividere, tagliare e recidere piuttosto che a collegare, connettere e rintracciare, appunto, somiglianze.
La critica al concetto di identità, insieme alla denuncia del vincolo ossessivo che ad essa si lega nel pensiero occidentale, fanno da sfondo alle riflessioni teoriche di Remotti fin dal suo saggio Contro l’identità e in L’ossessione identitaria, tra le cui pagine si era spinto a mostrare come l’identità sia alla base della produzione di «alterità», e che se dell’identità si deve fare a meno, allora anche il concetto di «alterità» deve essere smascherato come artefatto mentale, politico e sociale di cui diffidare. L’invito che Francesco Remotti esplicita nelle pagine del suo ultimo libro, è quello di sbarazzarsi del binomio identità-alterità e sostituirlo con quello di somiglianza-differenza: le somiglianze, infatti, non lasciano spazio ad alterità pure e assolute, ma tuttalpiù a differenze. Il sospetto generato dalle somiglianze non è soltanto una costante all’interno della filosofia occidentale, ma si ritrova anche nell’antropologia, biologica e culturale, la quale ha proposto un linguaggio scientifico per lo studio delle differenze, ma ha mostrato poca attenzione alle somiglianze.
Riconoscere gli «altri» come «simili» (termine significativamente scomparso dal linguaggio comune) è un passo imprescindibile per impegnarsi in un agire politico finalizzato al riconoscimento dei soggetti che, a ben vedere, non sono soltanto umani. Il fatto stesso che le somiglianze, a differenza delle identità, non tollerino confini troppo rigidi, ha implicazioni importanti non solo nel pensare le supposte divisioni fra gruppi umani ma anche nel ripensarne i confini con i non umani. Remotti sottolinea come nel pensiero della antropologia culturale, così come in altri ambiti del sapere, sia quanto mai opportuno rafforzare l’idea di un imprescindibile riconoscimento dei non umani quali soggetti giuridici e morali pienamente degni di essere coinvolti in progetti di convivenza.
Per sottrarre le somiglianze al discredito attraverso il quale il sapere occidentale pare averle emarginate, Remotti compie, nella parte finale del volume, l’operazione teoricamente più significativa e dirompente: mostrare come le somiglianze non si rintraccino solo nello spazio esterno, ma penetrino l’intimità delle cose senza risparmiare neppure quel nucleo apparentemente granitico che noi chiamiamo «persona», «individuo».
ulla scia delle intuizioni di David Hume, l’antropologo torinese afferma che l’io stesso – nel corso della sua esistenza e a causa delle relazioni che intrattiene con gli altri – è un fascio di somiglianze e di conseguenza non è mai identico, ma piuttosto simile a sé stesso. Il soggetto umano dissolto nelle sue relazioni e costituito da intrecci di somiglianze è dunque definibile come «condividuo», un termine già in uso fra i biologi per descrivere le endo-simbiosi fra viventi, che comporta non soltanto il rivedere astratte teorie sull’Io, ma il rintracciare, fin dentro di noi, le ragioni profonde per rilanciare politicamente la convivenza fra individui: molto più che una scelta di parte, essa è infatti il destino degli esseri viventi, perché di «convivenze» siamo dopotutto costituiti.
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