«Sul piazzale di terra battuta, chiuso dai muri calcinosi dei casolari, l’aria avvampava e le mosche impazzavano. Messa la sicura al mitra, andò a sedersi in uno spicchio d’ombra, sul gradino di una porta, e accese una sigaretta. In mezzo allo slargo, col morto ai piedi, il sergente Saccani raccontava di nuovo, stavolta a tre reclute, come accosciato tra le frasche, con i pantaloni calati, si era tuffato ad agguantargli lo sten. “Per fortuna quando m’è comparso davanti, avevo finito…”. Bravo, ma vantarsi con delle reclute solo da pochi giorni arrivate al reparto. Doveva essere il primo morto che vedevano, da come se ne tenevano discoste, quasi potesse sollevarsi all’improvviso, ad azzannarle alle caviglie».

È difficile, una volta intrapresa, sospendere la lettura de L’altare nero, lo straordinario romanzo inedito restato tra le carte di Marcello Argilli (1926-2014), famoso scrittore per ragazzi e militante comunista, ora pubblicato postumo dall’editore Bordeaux. Ti avvince il ritmo d’una scrittura impeccabile che restituisce luoghi, personaggi ed eventi con asciutta aderenza. Una scrittura che si dispone nell’andamento, direi incede col passo medesimo che ha la successione travolgente dei fatti. Vissuti da un diciottenne nei ranghi d’un reparto di paracadutisti della Repubblica Sociale Italiana, tra Piemonte e Lombardia, nei mesi del 1944, in quell’inverno, e fino alla primavera del 1945. Fatti di guerra civile. Incalzano, procedono senza possibilità d’essere arrestati, solo a momenti sospesi e solo per riprendere secondo l’inflessibile andare avanti imposto dal vincolo ferreo della guerra che travolge quanti, giorno dopo giorno, quel giorno muoiono e quanti, giorno dopo giorno, scampano quel giorno alla morte. Uccidersi. In ogni momento pronti a uccidere e ad essere uccisi. In un prato davanti a una stalla, in una piazza davanti a una chiesa. Difficile, dicevo, lasciare la lettura della prosa di Argilli che ti fa esser lì, presente ai fatti, anche tu membro di quel drappello armato. Hai imparato presto a riconoscere le voci dei componenti e il loro aspetto, cerchi ora di capire, davanti ai fatti per come si svolgono, come reagiranno Saccani, Luzzi, Gaddi, Bacci, Misèra, Serri, di penetrare il loro carattere che è il modo di esser parte d’una squadra. E con Alberto Luini, è lui il protagonista de L’altare nero, come Luini chiederti, interrogarti sul senso dei fatti. Con Luini, in una breve licenza per le vie di Milano, avvertire sguardi che ti giudicano con freddezza per la divisa che indossi, timorosi di suscitare una tua reazione. Con Luini, in un’alba grigia alla periferia di Torino dopo un amore che non può sbocciare, consumato sotto il coprifuoco e ti chiedi se c’è ancora per i tuoi diciotto anni un amore che corrisponda al bisogno di pulizia che senti dentro. Senza, disteso nella tua branda in camerata al buio, la sigaretta accesa, ti pare la tua una vita che non vale la pena d’esser vissuta.

Ho aperto questa nota riportando l’esordio del romanzo di Argilli, la prima pagina de L’altare nero che, la voce monologante è di Luini, così prosegue: «Sarebbe bastato arrivare pochi minuti prima: tutti gli altri, ormai irraggiungibili, arrancavano a mezza costa della collina, scappati così precipitosamente da lasciare in una stalla delle carte timbrate con la stella e l’intestazione XIX Brigata Garibaldi. Solo per rabbia aveva sparato. La prima volta dopo il fronte: colpi sprecati, neanche Luzzi il miglior mitragliere del battaglione, era riuscito a centrarli. Poteva restare all’ombra a fumare: il capitano non aveva bisogno di lui finché rimaneva col tenente Pieri che interrogava la dozzina di contadini schierati contro la facciata del casolare in fondo al piazzale. Fermi al sole, infagottati di scuro, dovevano emanare ancora più acre quel sentore di vecchi che non si lavano. Chissà dov’era, ormai, quella dozzina di partigiani. E dall’alba, correndo per le strade polverose del Canavese neanche s’era visto un giovane, solo vecchi e donne».

L’altare nero di Argilli trova il suo posto accanto ai pochi più elevati romanzi che raggiungono la verità che è dell’opera d’arte, non della testimonianza, a conoscere l’Italia di quegli anni tra 1943 e 1945 con Fenoglio, Calvino, Berto.