Cultura

L’alloro divino di Livia

L’alloro divino di LiviaVilla di Livia, Ambiente 12, Candelabro dipinto, IV stile

Archeologia Riapre a Prima Porta la Villa della moglie di Augusto. Con un riallestimento scenografico e la ricreazione del giardino originale, con la collaborazione di botanici e paesaggisti

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 12 settembre 2014

La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, volendo onorare il bimillenario augusteo, ha saggiamente colto l’occasione per celebrare la divina Augusta, portando a termine il restauro e il riallestimento della fondamentale Villa di Livia a Prima Porta. In attesa della definitiva inaugurazione del risorto monumento, prevista per l’autunno, aperture straordinarie sono fissate ogni sabato di settembre.
Il paradiso, per i credenti, sta in cielo. Per i poeti risiede agli antipodi, dove il solo Ulisse fu capace di arrivare, prima di cedere alla vendetta di gorghi danteschi. Sulla terra, prosaicamente, il vocabolo paràdeisos ha iniziato la sua carriera imperfetta quando fu utilizzato dai persiani per denominare un giardino regale. Qualche secolo dopo, nello stesso spirito con cui le lotte degli eroi contro giganti, amazzoni e centauri erano state concepite dai greci sulle metope del Partenone, i pratici romani preferirono l’arte del giardino per rappresentare la vittoria dell’intelligenza umana sul caos.
Così un giardino, seppur piccolo, tanto per il gusto di accogliere in casa lo specchio di un mondo in pugno, lo prevedeva ogni domus degna di rispetto. Al loro interno i ricchi proprietari potevano cullarsi nelle delizie dell’otium, marcando la differenza di classe con i plebei, costretti dall’esigenza a dedicare ogni ora disponibile al negotium dei propri lavori.
E tanti affari, per tuffarsi con successo negli ozi imperiali, dovette affrontare l’intraprendente Livia Drusilla, terza moglie di Augusto, a cui portò in dote il nome della gens Claudia e il successore Tiberio, avuto dal precedente marito. Tra le sue diverse ville, brillava di luce propria quella di Prima Porta, località sulla Flaminia che prende il nome da un acquedotto scambiato anticamente con la porta di accesso settentrionale alla città.
Racconta Plinio, nella Naturalis Historia, che lì un’aquila in volo avrebbe lasciato cadere sul ventre di Livia una gallina «di straordinario candore» – da qui le gallinas albas del toponimo latino – con un rametto di alloro stretto nel becco. Dopo aver consultato gli aruspici, la gentildonna si risolse a dare accoglienza alla progenie dell’immacolata gallina e a piantare il ramo che questa aveva portato con sé. Dall’alloro si sviluppò spontaneamente un giardino in forma di boschetto, lo stesso da cui gli imperatori della dinastia giulio-claudia avrebbero colto i bene auguranti ramoscelli da stringere come un amuleto durante le battaglie.
Come per tutte le leggende lasciate in eredità dall’universo classico, è sempre possibile identificare la fonte reale alla loro origine. Così gli archeologi, presso il lato orientale della sontuosa residenza, hanno evidenziato un’estesa terrazza circondata da portici con un giardino nel mezzo. È questo, probabilmente, il lauretum esaltato dalle fonti latine.
Qui i visitatori troveranno la prima delle tre grandi sorprese loro riservate dal nuovo allestimento, centrato dalla direttrice Marina Piranomonte sul connubio tra archeologia e architettura, con intelligente attenzione agli effetti scenografici.
La grande terrazza è stata, infatti, suddivisa dalla paesaggista Gabriella Strano in quattro evocativi spazi, all’interno dei quali sono state disposte sessantaquattro piante di alloro alte tre metri e contenute in olle di argilla, per evitare che le radici intacchino il suolo archeologico.
A protezione degli scavi e dei mosaici, ricoperti negli anni Ottanta senza troppo rispetto per l’estetica, i soffitti sono stati ora dipinti color azzurro cielo, nella stessa tonalità cromatica del magnifico affresco scoperto nella villa nel 1863.
Lo scenario è quello di un ninfeo sotterraneo: un triclinio dove gli ospiti di Livia dovevano essere ricevuti d’estate per ripararsi dalla calura, protetti da un ambiente raccolto che ricordava, grazie a finte stalattiti ricavate sul soffitto, quello di un’idilliaca grotta. Se lo spazio non appariva claustrofobico, gran parte del merito andava alle ariose decorazioni. Si tratta delle pitture di giardino romane più antiche, databili tra il terzo e il secondo decennio a.C. Dal 1952, quando furono restaurate per riparare i danni subiti durante la seconda guerra mondiale, sono conservate nel Museo Nazionale Romano di palazzo Massimo.
È la risistemazione dell’ambiente, curata da Fabio Fornasari, a riservare l’ultimo colpo di scena: un doppio sistema di illuminazione temporizzato, che consente in alternanza la lettura della muratura originale, proietta su un telo di garza l’immagine della scomparsa parete dipinta.
Alla staccionata di canne in primo piano, si contrappone una balaustra di marmo sullo sfondo. È tra queste due partizioni che trova respiro il giardino vero e proprio, il cui interesse storico è dovuto alla precisione con cui sono stati raffigurati i dettagli delle piante più vicine all’osservatore, dettagli tanto accurati da aver permesso diverse analisi tassonomiche. L’ultima è quella effettuata da Giulia Caneva, docente di botanica presso l’Università degli Studi di Roma Tre che ha potuto documentare, con certezza, almeno ventiquattro specie vegetali. Anche un occhio non esperto nota con facilità pini domestici, querce e abeti rossi; più in là, compaiono meli cotogni, melograni, mirti, oleandri, palme da datteri, corbezzoli. Rose e papaveri, crisantemi e fiori di camomilla fanno la loro impressionistica comparsa nel prato disteso tra gli alberi.
L’arbusto più frequente, ovviamente, è l’alloro, cartina al tornasole per eccellenza delle fortune imperiali. Narra infatti Svetonio che, poco prima della morte di Nerone, l’ultimo sovrano giulio-claudio, tutte le piante di questa specie, condotta in dono dalla gallina bianca piovuta illesa dagli artigli di un’aquila, si erano irrimediabilmente seccate, riducendosi a inadeguati portavoce del giardino sempreverde di Livia, compianta metafora della rigogliosa aurea aetas inaugurata dal divino marito.
Negli affreschi di Prima Porta, la grande verosimiglianza dei dettagli vegetali non aveva lo scopo di ricostruire un giardino reale, dove per esempio non potremmo trovare specie che fioriscono in stagioni diverse, ma proprio quello di comunicare un messaggio di natura squisitamente politica. Grazie al principato, in sintesi, Roma era rinata come un prato a primavera. Tanto i giardini reali, quindi, che quelli dipinti nascondevano sempre una morale, soprattutto se appartenevano alla consorte del princeps. Che i sudditi si rilassassero pure negli spazi verdi, a patto di non dimenticare mai che, dove il loro pio sovrano metteva dei fiori, si celava pur sempre la bocca di un cannone.

 

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