L’ultimo, nostro «inquilino dell’intérieur», il diplomatico François Cacault, era riuscito ad assicurare alla sua Nantes una collezione di tutto rispetto rastrellando, con la sua preminenza, una penisola messa a dura prova dalle requisizioni napoleoniche («Alias-D», 24 marzo 2024). Eppure certi suoi connazionali pure residenti in Italia, dalle sensibilità più timide e tradizionaliste, reagivano altrimenti a quei tempi burrascosi: erano «uomini deboli, paurosi», che non si presentavano puntuali all’appuntamento della Rivoluzione. Così Cacault li stigmatizzava, nel 1795: «Queste teste di artisti non sono sempre molto solide, si esaltano eccessivamente in un senso o in un altro».

Uno di questi era François-Xavier Fabre, un trentenne di Montpellier, che aveva ben speso i suoi anni di formazione studiando a Parigi con Jacques-Louis David, che avrebbe invece garantito riguardo alla solidità del giovane. Fabre aveva ottenuto il Prix de Rome dopo due tentativi andati a vuoto, e mette subito a profitto quella lezione tutta impregnata di rigore, nudi che si contorcono quanto basta e miti da ambientare nei paesaggi. Si fa presto a vedere qualche dipinto suo elogiato. Quando da Roma manda due tele al Salon del 1791, c’è chi dice che «tutti sono incollati alla Morte di Abele e alla Susanna al bagno di Monsieur Fabre», e persino il conte d’Angiviller, una sorta di autorità indiscussa in materia di pittura, gli poteva suggerire: «non vi dirò che siete un grande maestro, ma vi dirò che se operate come avete appena operato, lo diventerete, poiché non vi resta che eseguire quello che avete nel cuore e nella testa». Non aveva previsto, il soprintendente ai Bâtiments du Roi, che il problema sarebbe stato proprio quello.

François-Xavier Fabre, “Autoportrait”, part., 1783-’84, Montpellier, Musée Fabre

Quando Fabre sceglie Firenze come città per l’esilio, per sé e la sua famiglia di modeste finanze, si ritrova presto invischiato in un ménage che avrebbe condizionato, e forse sconvolto, la sua esistenza, e che di sicuro rovina la sua reputazione. La personalità decisiva è Louise di Stolberg-Gedern, contessa d’Albany in quanto moglie di Charles-Eduard Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra ormai disilluso e alcolizzato, dopo quei tentativi da spaccone di irregimentare gli scozzesi più rissosi – la materia scelta da Stevenson per il suo indimenticabile Master of Ballantrae. Vittorio Alfieri aveva perso la testa per la contessa, lei venticinquenne, nel ’77, con la sua «quarta ed ultima febbre del cuore». Anche il poeta non aveva calcolato che il francese, sobriamente, si sarebbe introdotto nella quotidianità di un salotto brillante, a Palazzo Gianfigliazzi sul Lungarno, dove la contessa d’Albany lo accoglieva come insegnante di pittura, fin quasi a spodestarlo (Stendhal sostiene che il poeta sarebbe morto di gelosia).

In questa storia, dove biblioteche, ritratti, eredità materiali, differenze generazionali, sentimenti e opere d’arte collezionate si incrociano pericolosamente, contano parecchio alcune delicate operazioni di mercato. Un primo esempio che lascia presagire lo spazio conquistato da Fabre è la vendita della collezione di milleduecento disegni del fiorentino Filippo Baldinucci, il maggiore conoscitore di disegni del Seicento, appena passati nelle disponibilità del principe Ferdinando Maria Strozzi «delle Stinche». Dominique Vivant Denon, vecchio amico di Fabre, inizia a chiedergli pareri, stime e attribuzioni nel 1803. Nel 1806, i disegni approderanno al Musée Napoleon, e sono quindi oggi al Louvre. Qualche anno prima Fabre aveva già dimostrato di sapersi muovere come mercante: a Firenze, nel 1802, aveva comprato per cinquanta franchi un ritratto di mano di Raffaello, a detta sua, e lo aveva rivenduto per cinquecento franchi a un agente francese di Luciano Bonaparte.

Nel mentre Alfieri moriva, e Fabre e la contessa spenderanno le loro ore migliori a discutere con Canova del monumento funebre da approntare a Santa Croce. D’altronde quando la coppia va a Parigi, a vedere il Museo di Denon e a rivedere vecchi amici che li vorrebbero vicini (David, Girodet…), la nostalgia per Firenze si palesa immediatamente. Molto meglio quando si va a Roma, come nel 1811: è anche l’occasione per arricchire la collezione con acquisti di quadri appena sfornati da quei pittori di paesaggio stimati da Fabre e dalla contessa. Sono Pierre-Athanase Chauvin o Simon Denis, oramai addomesticati dalla luce mediterranea, che riproponevano con tonalità più tenui, naturaliste e scandite le spinte in avanti prodotte da Valenciennes qualche decennio prima. Queste modalità di lettura delle cascate di Civita Castellana, o dei dintorni vesuviani, si rifrangevano nelle predilezioni sui paesaggisti italiani del Seicento, tanto che in questa tornata di acquisti Fabre si procura un Sermone della montagna che giudicava di Domenichino, e oggi passa sotto il nome di Pietro Paolo Bonzi. E così si fa strada una convinzione, che suona nettamente nostalgica: «un qualsiasi quadro di Poussin vale da solo più di tutto quello che è stato fatto da allora».

A margine andrà detto che il Poussin di Fabre non coincide con il nostro: lo si verifica passando in rassegna le tante acquisizioni che dichiarano una predilezione per Gaspard Dughet, il «Guaspre Poussin» copiato e ricopiato per supporre di giungere a una perfezione classicista. Davanti a un capolavoro di Poussin come la tela con Venere e Adone immersi in un paesaggio, tutto giocato su atmosfere cromatiche tizianesche, Fabre si mostra freddo: la maniera veneta «gli conveniva poco», come dichiara nel catalogo del suo museo del 1828. C’era invece di che accendersi quando apparivano i quadri di Achille-Etna Michallon, un astro nascente del paesaggio che fra i francesi di Villa Medici si era ricavato un posto di riguardo. Fabre riesce a comprare il suo ultimo quadro, un Filottete sull’isola di Lemno tutto rocce, verdi e squarci di luce fredda, del 1822: il giovane morirà di lì a poco, a ventisette anni. D’altronde solo adesso, dopo decenni di eccellente lavoro svolto da Michel Hilaire, conservatore che dirige il Musée Fabre (si veda da ultimo l’intervista apparsa su «L’Objet d’art» nel numero di marzo), si è acclarato quanto per Fabre contasse in primo luogo il genere paesaggistico, non solo in quanto pittore ma anche come collezionista-museografo. Non è un caso che di recente l’attenzione sia caduta su un altro amico di Fabre che si installa a Firenze, Louis Gauffier, con la mostra di Poitiers segnalata su «Alias-D» un paio d’anni fa e il volume di Anna Ottani Cavina. Era un altro paesaggista-ritrattista, che associava immediatamente lord inglesi, cupola di Brunelleschi e ponti sull’Arno. Fabre acquista una quindicina di suoi dipinti, che faranno parte di quella donazione alla città di Montpellier della raccolta messa insieme alla contessa d’Albany, che muore nel ’24.

Tutto verrà scrupolosamente coordinato dall’artista, a partire dalla costruzione dell’edificio che ospiterà il museo. Fabre ne assume la direzione ma gli preme ancora di più la genesi e la gestione dell’annessa scuola di belle arti. Questi anni di stabilità sono segnati da acquisizioni eccellenti, come il Matrimonio mistico di Santa Caterina di Veronese o la Santa Maria Egiziaca di Ribera, entrambi nel 1826, o il Ritratto di Fontenelle di Rigaud, nel ’29: un filosofo che negli occhi ha la felicità.

Ma è un’ascesa che dura poco; dopo qualche anno, arrivano le prime critiche: la stampa locale sostiene che Montpellier abbia speso troppo per un museo che non serve a nulla. Fabre si risente: «Ho già fatto molto per il nostro museo e mi è permesso dubitare che i miei sacrifici servano a qualcosa», scrive a un corrispondente di Aix-en-Provence. L’uomo, ormai anziano, si stava forse preoccupando di dare un futuro a quello che oggi si considera un suo figlio illegittimo, Emilio Santarelli, un altro «inquilino dell’intérieur». Intanto le fila dei detrattori, che includono Stendhal e Ingres, si ingrossano. Il primo, in visita al museo, non avrebbe perso occasione di giudicare un ritratto maschile rinascimentale, che Fabre aveva acquistato per quarantotto luigi, restaurato e poi considerato di mano di Raffaello. Altroché Raffaello! Per Stendhal era tutto di mano del pittore francese. Ci sarebbe poi voluto l’occhio di Bernard Berenson per restituire il dipinto ad Andrea del Brescianino, un senese di inizio Cinquecento, che qui arriva a uno dei suoi risultati più alti. Il secondo, nel ’35, era diventato direttore di Villa Medici e Fabre avrebbe sbottato, in un’altra missiva: «vi ricordate, immagino, cos’era questo posto nel 1792? Oggi deve essere un inferno».