Lavoro

Leon: «L’alleanza dei poveri contro la Ue dei ricchi»

Leon: «L’alleanza dei poveri contro la Ue dei ricchi»L'economista Paolo Leon

Intervista a Paolo Leon L’economista: si cresce rilanciando la domanda, non abbattendo il costo del lavoro. «La Bce compri il debito, finanzi gli investimenti». Letta riunisca i «Piigs» per contrastare lo strapotere tedesco

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 4 maggio 2013

«Il governo Letta ha avuto una apertura di credito dalla Ue, ma pur sempre molto limitata. I margini sono stretti: non si può escludere che il Pil non peggiori, e con esso il deficit, richiedendo nei prossimi mesi nuove misure».

L’economista Paolo Leon non è fiducioso rispetto alla capacità di contenimento del bilancio, a differenza della Commissione Ue e del neo ministro Fabrizio Saccomanni. Inoltre, suggerisce che l’Italia cambi il suo modo di rapportarsi all’Europa: «Dobbiamo capire che in questo momento andare in Germania è come andare negli Usa: di fatto la Ue non esiste, siamo di fronte a interessi nazionali contrapposti. Io fossi stato in Letta avrei incontrato i grandi affiancato dal ministro degli Esteri. E mi farei sentire di più ai tavoli europei: siamo la terza economia dell’euro, e se andiamo male noi crolla tutto; possiamo dire qualche no. E aggiungo un’idea: coalizziamo i paesi in difficoltà, Cipro, Portogallo, Spagna e Grecia. Avremmo molto più potere negoziale, perché i paesi ricchi sono interessati a che noi non ci sottraiamo al pagamento dei debiti».

Quindi nonostante si vada verso la fine della procedura di infrazione Ue, la situazione resta grave.

La situazione rimane gravissima. Perché non ci sono segnali di aumento della domanda, nè dai consumi nè dagli investimenti. Un po’ forse si potrebbe muovere l’export, grazie al taglio dei tassi della Bce. Ma questo forse contribuirà più a favorire i tedeschi rispetto agli italiani.

La Ue però, seppure rinvii la ripresa all’anno prossimo, sembra dare fiducia al governo Letta.

Sì, c’è indubbiamente un’apertura di credito, per quanto molto limitata. Diciamoci anche che le valutazioni sul deficit, con uno 0,2% in più o in meno, sono anche molto tarate sul fatto che un governo sia gradito alla Ue e in particolare alla Germania. Ci vedo in quelle valutazioni poca scientificità e molta politica.

È gradito, cioè, come lo era quello di Monti. Ma possiamo parlare di un bis di Monti senza Monti?

È un misto, un cocktail. Non è certo Monti, che aveva una sola direzione, quella del rigore. Questo governo ha bisogno di consenso popolare, perché è molto difficile da tenere insieme. Berlusconi fin dall’origine era per sfondare i tetti Ue, per avere crescita sufficiente. Il Pd – visto come il «partito delle tasse» – si rende conto che se si conferma l’attuale tasso di disoccupazione non si può reggere. C’è dunque una convergenza dei due partiti per far passare misure che creino un qualche consenso, ma non hanno la cultura sufficiente per agire con efficacia.

E inoltre al momento sono divisi tra l’Imu e le tasse sul lavoro.

Sono due prospettive diverse. L’Imu vorrebbe aiutare la domanda, ma le cifre che si lascerebbero in tasca alle famiglie sono talmente esigue che si avrebbero ben pochi effetti. Io piuttosto credo che il Pdl insista per far cadere il governo prima o poi, o per farsi ripagare in termini politici, ad esempio con la presidenza della Convezione a Berlusconi. Dal lato del Pd c’è la solita ottusità di chi continua a vedere il problema nell’offerta, e non nella domanda. Pensano che abbassando il costo del lavoro si passi a produrre di più: ma per vendere cosa a chi, se la domanda è ferma? Senza contare che per avere riduzioni notevoli, ci vorrebbe il triplo delle risorse di cui si parla. Il vero cambiamento sarebbe invece quello di trasformare alcune spese da improduttive a produttive.

Può farci qualche esempio?

Le grandi opere, come la Tav o il Ponte, sono stupidaggini che non danno lavoro a breve. Con quei soldi finanziamo piccole opere locali.

Aiuterebbe rimodulare le aliquote fiscali? O una patrimoniale?

Se riuscissimo a evitare la fuga dei capitali sì, ma è difficile che con nuove tasse non si freni la domanda. Bisogna ridurle, le imposte, perché determinino domanda.

Luciano Gallino, ieri sul nostro giornale, proponeva che i paesi europei chiedessero un prestito di 100-200 miliardi alla Bce per un grande piano del lavoro e delle infrastrutture. Dall’altro lato Mario Draghi taglia i tassi. Sono ricette efficaci per rilanciare lo sviluppo?

Sono due ipotesi diverse, e mi trovo d’accordo con quella di Gallino. Prendiamo gli Usa: é vero che tengono i tassi bassi, ma la crescita l’hanno riacchiappata grazie al primo mandato di Obama, che ha iniettato molti miliardi nell’economia. Il taglio del costo del denaro, da solo, non basta: è anzi, direi, del tutto inutile, e dannoso per la Bce, che stampa nuova moneta, subito sterilizzata per l’assenza di domanda. Le banche non prestano perché le regole di Basilea vietano di dare finanziamenti se non hai capitali adeguati; ma il capitale delle banche è costituito dagli stessi prestiti: quindi è un cane che si morde la coda. La Bce deve finanziare i disavanzi o gli investimenti pubblici: comprare il debito corrispondente agli investimenti, come si è sempre fatto nei momenti di crisi, come faceva Delors. Manca il coraggio e la cultura per farlo: era un’idea comunissima fino al 1985, ma si è perduta perché paesi come Germania e Olanda, mercantilisti e protezionisti un po’ come lo erano nel Medioevo, non ci credono. I paesi ricchi, in surplus, sono forse più responsabili della crisi che non quelli indebitati: l’austerità nasce dal fatto che chi è in surplus non ha aumentato la propria domanda quanto necessario per mettere gli altri paesi nelle condizioni di vendere loro le merci.

Un Paese indebitato come l’Italia, dunque, come dovrebbe agire?

Io credo che Letta debba pazientare almeno fino alle elezioni tedesche. La Germania e l’Olanda giocano il loro consenso interno alimentando l’egoismo verso i paesi indebitati, nascondendo che lo sviluppo verrebbe, al contrario, proprio facendo ripartire la domanda da parte loro, e l’export di chi è indietro. Noi però sbagliamo a considerare i rapporti con questi paesi come se la Ue contasse qualcosa: quando Letta incontra Merkel, siamo al contrasto puro tra due interessi nazionali, come poteva essere negli anni Trenta. Perciò io, fossi stato in lui, sarei andato con il ministro degli Esteri. E ai consigli d’Europa puoi dire qualche no, visto che se l’Italia o la Spagna non pagano i debiti, per gli altri è un disastro. Io lancerei una «alleanza dei poveracci», guidata dall’Italia, che contrasti e faccia da contrappeso alla cattiveria dei paesi ricchi.

Una «Lega dei Piigs», potremmo dire. Come vede la nuova squadra di governo? Potrà essere efficace?

Sono ottimista di natura. Certo, una volta distrutto il Pd e la rappresentanza a sinistra, è dura che si possa fare qualcosa di ragionato. Ma persone come Saccomanni o Giovannini, in posti nuovi, potrebbero caratterizzarsi proprio per voler fare qualcosa di inedito. Sulla riforma Fornero, ad esempio, io non andrei a liberalizzare ancora: questo non aumenta i salari nè i posti. Piuttosto, cerchiamo di rilanciare l’economia, e puntiamo sulla produttività, ma nei contratti nazionali. Positivo mi sembra anche il nuovo ministero Kienge, contro le discriminazioni.

Che ne pensa del reddito minimo garantito? Lo si deve introdurre?

Penso che sia necessario, soprattutto in fase di alta disoccupazione e inoccupazione. Difficile però che ricchi e medio-ricchi la accettino, perché di fatto aumenta la progressività delle imposte. Inventeranno un nuovo sussidio o metteranno insieme quelli già esistenti? Vedrei favorevolmente questa ultima ipotesi, anche per razionalizzare il welfare. Ma è una misura che ha senso solo se si autoesautora nel tempo, se il governo lavora per superare la crisi e realizzare la piena occupazione. Idealmente preferirei che una persona lavorasse, e che non avesse bisogno di aiuti: a questo dovremmo tendere.

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