Le pareti azzurre della sua casa di Abidjan (Costa d’Avorio) hanno accompagnato l’ultimo sonno di Frédéric Bruly Bouabré (Zéprégüé 1921 o 1923), nella notte tra il 27 e il 28 gennaio.

Bruly Bouabré era conosciuto anche come Cheik Nadro. Cheik è anche l’appellativo che si usa per il capo villaggio, l’anziano, il saggio. Lui è stato molto di più. Era il vate dell’arte africana, “scoperto” negli anni Ottanta da André Magnin e portato con successo sulla scena artistica internazionale. Tra le mostre ricordiamo, oltre alla recentissima partecipazione al Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni alla 55/ma Biennale d’arte di Venezia, la doppia personale Frédéric Bruly Bouabré + Aboudia alla Galerie Cécile Fakhoury, Abidjan (2012), Frédéric Bruly Bouabré alla Tate Modern, Londra (2010-2011); 100% Africa, Guggenheim, Bilbao (2006-2007); Magiciens de la Terre al Centre Pompidou, Parigi (1989).

Instancabile lettore, amante della letteratura ma anche dei saggi di antropologia e sociologia, Bruly Bouabré è l’inventore dell’alfabeto pittografico della lingua bété, l’etnia a cui apparteneva, composto da oltre 400 ideogrammi monosillabici.

Opere visionarie le sue, fresche e immediate, mai banali o retoriche. Dagli anni ’70, ovvero dal momento in cui ha iniziato a dipingere dopo aver avuto la rivelazione, ha sempre associato disegno e pittura alla scrittura, realizzando raffigurazioni apparentemente ingenue, ma ironiche e piene di doppi sensi, soprattutto quando gli argomenti sono l’Africa e la civilizzazione.

Come ha sempre sostenuto: “Da una parte c’era Picasso e dall’altra Victor Hugo. Ma è Picasso, con il suo disegno, ad avermi catturato. Ma non sono io che mi sono avvicinato all’arte è l’arte che è venuta da me.”

Il successo (persino un orologio modello Cheik Nadro lanciato da una nota casa svizzera nella collezione primavera/estate 1996) non ha mai proiettato Frédéric Bruly Bouabré fuori dalla sua dimensione autentica e speciale.

Era sempre all’opera, circondato da figli, nipoti e pronipoti oltre che ospiti di passaggio. Usava per lo più cartoncini bianchi di formato cartolina, ma anche tele di grande formato. Un invito a riflettere quel suo modo di parlare della bellezza come possibile salvezza per la civiltà.