Le periodizzazioni, si sa, non sono categorie naturali e universali; esse nascono per esigenze culturali e sono specifiche di determinati momenti storici: il concetto di medioevo è nato nell’ambito della cultura umanistico-rinascimentale e ha conosciuto sviluppi e articolazioni dall’età della Riforma fino almeno all’Ottocento romantico; mentre l’espressione Rinascimento è stata coniata dallo storico francese del XIX secolo Jules Michelet.
Fra queste periodizzazioni, quella della cosiddetta «età tardoantica» è relativamente nuova, generata dall’esigenza di focalizzare l’attenzione su un momento storico nel quale l’impero romano ha vissuto uno serie di mutamenti epocali: la diffusione del cristianesimo in primo luogo, ma anche la divisione fra pars occidentis e pars orientis, il tramonto di Roma a favore di Costantinopoli, la crisi economica, l’incontro/scontro con i barbari. Se tutte le epoche conoscono cambiamenti importanti, sembra insomma che i secoli fra III e VI siano davvero un’età di transizione, e dunque necessitino di attenzioni particolari; anche perché, insieme ai mutamenti suddetti, ne arrivarono altri forse più sottili, ma ovviamente di primaria importanza, che riguardano la cultura profonda e l’immaginario collettivi. Il rapporto con il denaro e quello con la morte, due temi differenti, sebbene a volte correlati, sono fra quei temi che hanno conosciuto un cambiamento radicale nella cultura d’età tardoantica in connessione con la diffusione del cristianesimo
Il pauper medievale
Al rapporto fra la società e la ricchezza ha dedicato un’opera monumentale, che ancora dev’essere tradotta in italiano, Peter Brown, uno che – attraverso i suoi studi – ha largamente contribuito a inventare il concetto stesso di tardoantico. Through the Eye of a Needle: Wealth, the Fall of Rome, and the Making of Christianity in the West, 350-550 AD (Princeton University Press, 27,95 GBP, 806 pp.) ci aiuta a comprendere come i concetti di ricchezza e di povertà abbiano subito un mutamento profondo con l’affermazione della fede cristiana, non perché essa abbia comportato una redistribuzione dei beni e una svolta nel senso dell’eguaglianza all’interno della società romana (nella quale, in modo molto simile alla contemporaneità, il 10% circa della popolazione deteneva il 90% delle ricchezze), dal momento che le donazioni richieste con forza dai leader spirituali del tempo, da Agostino a Girolamo ad Ambrogio, andavano perlopiù a finanziare le istituzioni religiose: che poi rafforzavano la propria posizione gestendole anche per le opere di carità.
Il cambiamento stava soprattutto nel fatto che, alla luce della nuova filosofia cristiana, a ricchezza e povertà veniva ora attribuito un significato morale, impossibile da evitare alla luce della predicazione di Gesù e da quell’immagine forte e imprescindibile che viene richiamata dal titolo del libro di Brown. Senza dimenticare, tuttavia, che ricchezza e povertà non sono concetti oggettivi, dato una volta per tutte, per cui poteva capitare che ricchissime matrone come Melania si facessero «povere» pellegrine nell’intraprendere il viaggio a Gerusalemme. È un mutamento testimoniato anche dalla lingua: il pauper medievale non è tanto né solo il «povero» nel senso di colui che manca di beni materiali, ma è soprattutto l’inerme, quello che non è in grado di difendersi. La scelta di povertà operata da san Francesco fu proprio questa: essere inerme fra gli inermi, ancor prima che povero di ricchezze materiali. Il pregio del libro di Peter Brown sta soprattutto nel saper cogliere e raccontare al lettore con chiarezza e efficacia le sfumature di un cambiamento che fu sì epocale, anche se non in apparenza.
Non è casuale che sul tema della povertà apostolica si sono prodotte in epoca non solo medievale polemiche laceranti in seno alla Cristianità; con Through the Eye of a Needle arriviamo insomma a capire come e perché la società cristiana occidentale e la Chiesa abbiano compiuto, sul tema della ricchezza, quelle scelte che i movimenti eterodossi dei secoli successivi giudicheranno una negazione del messaggio evangelico.
Un altro grande tema caro agli studiosi del tardoantico è quello della morte e del rapporto tra vivi e morti; lo stesso Brown gli ha dedicato pagine essenziali, soprattutto per ciò che riguarda il culto dei santi. Nel mondo antico, l’aldilà era immaginato come un luogo oscuro e terribile. Per questo motivo la discesa agli inferi degli eroi – in cerca di rivelazioni – era la prova suprema da affrontare, mentre si conoscevano festività e rituali che avevano lo scopo di tenere lontane le ombre dei defunti che potevano tornare.
L’avvento dei culti misterici nel mondo greco e poi a Roma ribaltarono questa concezione, configurando un’immagine meno tetra dell’oltretomba. Una rivoluzione che arrivò a compimento con il cristianesimo, nel quale l’aldilà è il luogo in cui si realizza la giustizia divina, mentre il mondo nel quale viviamo non è che l’immagine offuscata della verità. I morti, nel mondo cristiano, non stanno isolati in città pensate e ideate e costruite per loro, «necropoli»: vengono riuniti di «dormitori» (questo il significato dei termini d’origine greca «catacomba» e «cimitero»), dal momento che la morte è solo un temporaneo letargo che si concluderà con al resurrezione di tutti secondo al promessa del Cristo Salvatore. Quindi, i cimiteri stanno negli abitati: i morti si seppelliscono nelle chiese o attorno ad esse: ed è questo un costume tanto profondamente radicato che la pratica igienica d’origine illuminista che darà luogo di nuovo a neopagane «necropoli» venne in un primo momento avversata nell’Europa dell’inizio dell’Ottocento.
Maschere e fede
I primi cristiani avevano tratto dal mondo pagano la pratica del refrigerium, ricordata negli epitaffi e nelle catacombe; il termine poteva indicare di volta in volta il banchetto funerario, il ricordo gioioso dei martiri, le celebrazioni in onore dei defunti, ma anche la possibilità di pregare per le anime al fine di procurar loro la pace. The Face of the Dead and the Early Christian World (a cura di Ivan Foletti, Viella, 30 euro, 192 pp.) è una raccolta di saggi, frutto di un convegno svoltosi a Brno lo scorso anno, nel quale il tema del rapporto tra i vivi e i morti viene indagato a partire dalla rappresentazione dei volti dei defunti.
Rappresentare pittoricamente il volto del morto era una tecnica era uno strumento del ricordo tipico dell’ età antica che si mantenne anche in età successiva, pur perdendo gradualmente i caratteri realistici e passando a indicare sempre più le qualità morali del defunto: un cambiamento in linea, peraltro, con l’affermarsi della fede cristiana. Ma si tratta anche in questo caso di un cambiamento che si coglie solo comprendendo una serie di sfumature: che, anche in questo caso, i diversi autori sono bravi nel cogliere; magari ricorrendo anche a interessanti comparazioni, come quella con il mondo cinese antico, sul quale riflette Ladislav Kesner nelle pagine finali del libro.