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L’alchimia delle bolle, un gioco antico

L’alchimia delle bolle, un gioco anticoKarel Dujardin «Boy Blowing Soap Bubbles» (1663)

Dalla forma alla pratica Tra scienza ed esoterismo, dagli egizi agli studi di Newton, alle simbologie dei dipinti

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 15 gennaio 2022

Un antico gioco di bimbi e un’ancora più antica Arte per conoscere e riconoscersi nei segreti della Natura: le bolle di sapone e l’Alchimia. Nelle immagini che nascono da questa poetica relazione possiamo, in realtà, trovare concretissime suggestioni su come affrontare le sfide delle mutazioni ambientali, su quali tecnologie, ma soprattutto quale forma mentis dobbiamo acquisire per riequilibrare le vite umane alle altre che condividono con noi l’unico pianeta per ora disponibile. Vediamo come.

Le bolle di sapone
Abbi divertimento sulla terra e sul mare, Infelice è il diventare famoso! Ricchezze, onori, false illusioni di questo mondo. Tutto non è che bolle di sapone. Il sonetto, che riprende il titolo del quadro che stiamo per utilizzare in questo viaggio alchemico attraverso le bolle di sapone, veniva ciato il 9 dicembre 1992 dal fisico francese Pierre-Gilles de Gennes, professore al Collège de France, dopo il conferimento del premio Nobel per la fisica. La poesia, come ci ricorda Michele Emmer nel suo libro Bolle di sapone tra arte e matematica (2009), compare come chiosa di una incisione del 1758 di Jean Daullé dall’opera andata perduta di François Boucher La souffleuse de savon.

La storia della relazione tra le bolle di sapone e l’Alchimia molto probabilmente inizia con l’uso del sapone, già diffuso nell’antichità egizia ed anch’esso prodotto di scarto delle manipolazioni alchemiche, come tanti altri quali l’acqua ragia, in origine Acqua Regia, scoperta dall’alchimista persiano Gerber già nel settimo secolo. Nell’estremo Oriente molte sono le stampe che raffigurano maestri Zen che indicano con il loro sorriso ineffabile agli apprenditi estasiati il volo delle bolle di sapone prodotte accidentalmente dal vento passando attraverso le maglie di un tessuto insaponato: metafora materiale della leggerezza e della lievità dello Spirito, l’essenza del Neidan, l’Alchimia interiore.

Con l’affermarsi del metodo galileiano le bolle di sapone divengono materia di osservazione scientifica e non solo un gioco infantile. Ora, sia detto per inciso, questa espressione «gioco di bimbi», viene spesso usata nell’Arte Regia per designare la via stessa che porta al suo segreto, con un chiaro riferimento alla purezza dello spirito che l’operatore deve avere per accostarsi alle verità ultime della materia e soprattutto di ciò che la vitalizza. Nell’Alchimia cosiddetta cristiana, centrale è infatti il sinite parvulos venire ad me (Marco 10, 14)… talium enim est regnum Dei. Amen dico vobis: quisque non receperit regnum Dei velut parvulus, non intrabit in illud.

E così le bolle di sapone divengono uno strumento scientifico, specie agli occhi di studioso di grande levatura come il Libero Muratore, ma anche esperto alchimista, fisico e matematico nonché fondatore della Royal Society come Isaac Newton il quale, racconta una storia, occupato nei suoi studi di ottica, vede per caso un fanciullo che fa le bolle di sapone e in quelle osserva il fenomeno dei colori per la rifrazione dei raggi luminosi. Più di cento anni dopo il conte Paolo Tosio di Brescia in una lettera del 13 settembre 1824 al pittore Pelagio Palagi la racconterà per descrivere la scena del dipinto che gli voleva commissionare e che oggi si trova col titolo: Newton scopre la teoria della rifrazione della luce, a Brescia presso i Musei Civici d’Arte e Storia.

In effetto, Isaac Newton nella sua Opticks descrive in dettaglio i fenomeni che si osservano sulla superficie delle bolle di sapone: «Se si forma una bolla con dell’acqua resa prima più viscosa sciogliendovi un poco di sapone, è molto facile osservare che dopo un po’ sulla sua superficie apparirà una grande varietà di colori. Per impedire che le bolle vengano agitate troppo dall’aria esterna (con il risultato che i colori si mescolerebbero irregolarmente impedendo una accurata osservazione), immediatamente dopo averne formata una, la coprivo con un contenitore trasparente, ed in questo modo i suoi colori si disponevano secondo un ordine molto regolare, come tanti anelli concentrici a partire dalla parte alta della bolla. Via via che la bolla diventava più sottile per la continua diminuzione dell’acqua contenuta, tali anelli si dilatavano lentamente e ricoprivano tutta la bolla, scendendo verso la parte bassa ove infine sparivano. Allo stesso tempo, dopo che tutti i colori erano comparsi nella parte più alta, si formava al centro degli anelli una piccola macchia nera rotonda che continuava a dilatarsi».

Alla fine di una successiva osservazione, la numero 18, aggiunge: «Nel frattempo nella parte alta che era di un blu scuro, e appariva anche cosparsa di molte macchie blu più scure che altrove, comparivano una o più macchie nere e tra queste altre macchie di un nero più intenso […] e queste si dilatavano progressivamente fino a che la bolla si rompeva […]. Da questa descrizione si può dedurre che tali colori compaiono quando la bolla è più spessa».

Ora, questa che sembra une mera osservazione scientifica, cioè puramente rivolta alla natura fisica della luce, nasconde, come la macchia oscura che Newton osserva, una verità esoterica nota in Alchimia come Coda del Pavone. E la bolla diventa così un prisma morente, un cristallo, il Cristo ermetico sulla croce: INRI: igne natura renovatur integra, cioè la natura si rinnova interamente nel fuoco, là dove l’Artista spera di ottenere infine la Pietra Filosofale: lo Spirito corporificato.

Il quadro allegorico
Esiste un quadro del pittore Karel Dujardin titolato Ragazzo che soffia bolle di sapone. Allegoria della transitorietà e della brevità della vita umana (1663) che epitomizza, come solo certe opere d’arte hanno il potere di fare, la densità simbolico-alchemica delle bolle di sapone, e dunque anche le possibili suggestioni per evolvere l’attuale fase della modernità, il cosiddetto atropocene. Il ragazzo è in piedi su di una conchiglia, una Capasanta per la precisione, la stessa che, dai tempi mitici dell’antica Grecia, la vede come simbolo di Afrodite, la Dea della Bellezza e dell’Amore.

Nata attorno al membro di Urano gettato nel vasto mare dopo la sua evirazione da parte di Crono, Afrodite, dal greco afros, significa al tempo stesso spuma ma anche sperma, simboleggiando dunque la forza irrefrenabile e invincibile della passione erotica temperata, però, all’Armonia che sempre caratterizza la vera Bellezza. Da questo mare dunque tutto nasce, prende vita, ma anche tutto ritorna, dato che la Dea nasce dall’acqua stessa, fonte di ogni virtualità e trasformatrice di ogni sostanza.

Ma Venere è anche la dea dell’alleanza tra il cielo e la terra, dato che dal primo essa discende mentre, mettendo piede sulla terra la rende fiorita, come possiamo vedere nel ciclo delle belle allegorie a lei dedicate nel Palazzo Te a Mantova. Per rendere ancora più visibile questa presenza invisibile, ecco che una delle bolle di sapone disegna una mezza luna, sostegno ancora oggi della Vergine, ed al suo fianco brilla la stella del mattino e della sera, Venere appunto «che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio», come magistralmente la descrive Dante (Paradiso VIII, 12).

I punti toccati dal pianeta brillante nella sua orbita celeste disegnano un pentalfa perfetto, simbolo che Arturo Reghini, latomista e matematico insigne, ha lungamente studiato nelle sue dissertazione sui numeri pitagorici, come ci dice l’omonimo libro a cura di Stefano Loretoni e Christian Scimiterna, e che ancora fanno parte del percorso iniziatico di alcuni riti di perfezionamento della Libera Muratoria come il Rito Simbolico Italiano.

E allora possiamo pensare il bel giovane del dipinto come una ipostasi di Eros stesso, non armato delle sue tradizionali frecce d’oro e di piombo, ma di queste lievissime bolle di sapone che ammira mentre lui stesso le crea. I suoi piedi posano su una forma che potrebbe al tempo stesso essere sia una bolla di sapone sia una perla trasparente, dato che da essa si diparte un filo di queste ultime sino a perdersi nel mare.

La simbologia ermetica
Il quadro esprime così un’allegoria molto più complessa di quella che da il nome al dipinto, la cui ulteriore lettura ci porterà sottili suggestioni per uscire da questo tunnel di distruzione ed autodistruzione che stiamo ciecamente percorrendo. L’alchimia infatti, l’Arte di Ermes, è l’antica Arte della trasmutazione di se stessi nelle cose, la capacità cioè di immedesimarsi nei fenomeni naturali e di accordare ad essi la propria esistenza personale e collettiva. Ermes è il dio dei transiti, degli scambi, ma anche del segreto, del silenzio che si deve alle cose ineffabili. Egli è anche psicopompo, traghetta cioè le anime nella loro dimora forse definitiva.

La prima cosa che notiamo allora è, abbiamo detto, la conchiglia. È quella che vediamo sui pettorali dei Pellegrini che si recano a San Giacomo di Compostela, ma che troviamo, insieme alla mezzaluna, anche come simbolo della Madre di Dio, la versione cristiana della Grande Dea creatrice, la Natura Naturans che tutto genera nel suo grembo, Iside velata cui «nessun mortale ha mai osato sollevare il velo», come ci ricorda Plutarco. Ma la tradizione alchemica ci dice che fare un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela significa anche intraprendere il magistero della Grande Opera, di quella trasmutazione del proprio vile metallo, il piombo, in oro, il metallo incorruttibile, simbolo solare dello Spirito «che soffia dove vuole». Ecco allora che il bel bambino poggia sulla Natura stessa, come il lavoro dell’alchimista, a sua volta galleggiante sul mare, come noi tutti dovremmo comprendere con umiltà e riconoscenza.

La figura del ragazzo è poi addobbata da una semplice veste e da un leggero mantello mosso dal vento, come fosse una vela che lo porta lontano da quella terra che si vede in lontananza: una landa scura, quasi minacciosa, irta di torri da difesa. Qui riappare allora una Pathosformel, termine coniato da Aby Warburg per definire alcune immagini che ritornano in contesti differenti attraverso i secoli della storia dell’arte. In particolare Warburg aveva «fissato» la sua attenzione, e non usiamo il termine a caso come vedremo tra poco, sulla figura della Ninfa, ipostasi delle forze elementari che condividono con noi la casa comune, e che egli aveva infine individuato nella costante archetipica del panneggio ondulato mosso da una brezza sottile, o dal suo stesso movimento, come quelli della Venere di Botticelli, della Gradiva del racconto visionario di W. Jensen che tanto fece riflettere S. Freud, o della «signorina-porta-in-fretta» come lo stesso Warburg chiamava la figura dipinta dal Ghirlandaio per la Nascita del Battista nella cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella a Firenze e che lo fece letteralmente impazzire.

Il Battista è «colui il quale da i nomi», e dunque che fa esistere le cose, ragione del suo decollamento da parte di Erode Antipa su istigazione di Salomè, come ci ricorda Franco Farinelli nei suoi studi sulle proiezioni cartografiche tolemaiche. Ma, non a caso, la «polvere di proiezione», è una delle caratteristiche della Pietra Filosofale, che in questo caso non serve a proiettare su un piano una superficie sferica ma, al contrario, far convergere il piano della realtà fenomenica verso la Sfera Universale dell’Uno: ciò che ascende converge.

Anche la fila di perle ha un significato profondo: già Giordano Bruno, martire del libero pensiero, sosteneva l’esistenza di «infiniti mondi», non solo nello spazio ma anche nel tempo, esattamente come troviamo detto nella cosmologia induista nella quale Brama «apre e chiude ogni giorno i suoi occhi su un cosmo differente», introducendo così l’immagine della catena dei mondi, come fossero appunto perle di una stessa ininterrotta collana che, però, come nel dipinto, si perde nell’infinito mare dell’Essere.

Infine, ma non meno importante, le perle toccano un ramo di corallo rosso, simbolo della rigenerazione e della trasmutazione della materia, di quella «fissazione», in questo caso dal fluente principio acqueo, che Ovidio ben descrive nel brano delle Metamorfosi (IV, 740-752) dove parla di Perseo e della testa di Medusa :«L’eroe intanto attinge acqua e si lava le mani vittoriose; poi, perché la rena ruvida non danneggi il capo irto di serpi della figlia di Forco, l’ammorbidisce con le foglie, la copre di ramoscelli acquatici e vi depone la faccia di Medusa. I ramoscelli freschi ancora vivi ne assorbono nel midollo la forza e a contatto con il mostro s’induriscono, assumendo nei bracci e nelle foglie una rigidità mai vista. Le ninfe del mare riprovano con molti altri ramoscelli e si divertono a vedere il prodigio che si ripete; così li fanno moltiplicare gettandone i semi nel mare. Ancor oggi i coralli conservano immutata la proprietà d’indurirsi a contatto dell’aria, per cui ciò che nell’acqua era vimine, spuntandone fuori si pietrifica».

Fissare il volatile
Ma, evidentemente, ciò che caratterizza il quadro è il gesto focale della produzione di bolle di sapone. E questo ci porta molto vicino alla soluzione di uno dei grandi problemi discussi, con più o meno successo, nelle tante conferenze sul clima: il livello di CO2. Ora noi sappiamo che una delle cause dei mutamenti climatici, ed usiamo la parola mutazione e non cambiamento a ragion veduta, mutuandola anche dalla medicina oncologica, è appunto l’aumento del livello di anidride carbonica nell’atmosfera. Sappiamo anche che gli alberi sono i grandi «fissatori» di questo prodotto organico, attraverso il Ciclo oscuro, altro prezioso riferimento all’Opera al Nero, ma che al momento le estese deforestazioni e l’eccesso della sua produzione non ne permettono l’assorbimento richiesto. E allora? Ecco che ricompare una delle formule centrali del Magistero Alchemico: fissare il volatile. Tutta l’Opera è rivolta a raggiungere questo scopo, che in realtà tende a «fissare» lo Spirito, cioè il Principio vitale innato ed incondizionato, che sostiene tutte le forme del vivente. E con la parola «vivente» non si intende solamente ciò che si muove o passa da uno stato di vita ad uno di morte, ma tutta la materia creata, tutto ciò che vibra e si trasforma. Fissare il volatile significa dunque sentire questa presenza in ogni cosa e, così avvertendola, agire nel rispetto di ciò che unisce tra di loro tutte le forme manifestate. E allora, quando produciamo una bolla di sapone, non stiamo in qualche modo fissando il volatile? Non è esattamente un frammento di CO2 quello che per un solo fantastico momento, stiamo intrappolando nella nostra effimera creazione? L’Armonia delle bolle di sapone corrisponde così al ritmo armonico del respiro della Natura stessa; non è forse di questa semplice  identificazione che abbiamo bisogno per rinascere al Tutto?

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