ExtraTerrestre

L’albicocco, un maestro per l’umanità

Alberi Riflessioni a partire da una lezione del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso sulla sorprendente intelligenza delle piante che ci sopravviveranno, mentre l’homo sapiens fa di tutto per estinguersi

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 28 novembre 2019

Abbiamo ascoltato Stefano Mancuso nella Sala d’onore della Triennale di Milano, sabato 16 novembre, in occasione di Bookcity. E’ intervenuto per illustrare la collana da lui diretta – La nazione delle piante per Laterza – accompagnando l’autrice del primo volume, Angela Borghesi (La camelia).

Il tono del suo discorso è piano, i dati e le teorie che illustra sono sempre più incalzanti e supportate da evidenze scientifiche, alla fine chi non avesse mai letto nulla o solo qualcosa del noto neurobiologo vegetale rimane sconcertato e con una messe di domande nella testa che accantonano ogni preconcetto che si nutriva a proposito di questo immenso mondo chiamato «nazione delle piante».

Ecco cosa ci ha raccontato. Le piante costituiscono l’85% della biomassa terrestre, gli animali, esseri umani compresi, non ne rappresentano che lo 0,3% (i funghi, per dire, sono l’1,8% ed il resto è costituito da microrganismi). Le piante costituiscono indubbiamente la forma di vita ampiamente più presente sulla terra. Sono anche «intelligenti». Bisogna mettersi d’accordo sul significato della parola. Se intelligenza vuol dire dipingere la Cappella Sistina oppure elaborare la teoria della relatività, certamente no, le piante non sono in grado di farlo. Se invece ci chiediamo quale sia il vero scopo dello stare al mondo di una specie, il discorso cambia completamente: le piante non sanno comporre la Nona di Beethoven, e va bene, ma noi che abbiamo avuto l’impudenza di chiamarci homo sapiens sapiens quanto siamo capaci di dare un futuro alla nostra specie?

Il tempo medio di esistenza di una specie sulla terra si aggira sui quattro milioni di anni. Noi umani siamo qui da trecentomila: c’è qualcuno che immagini noi sapiens sapiens sopravvivere altri tre milioni e settecentomila anni? Cosa significa dunque «intelligenza»? E cosa significa allora «superiorità»? Se corriamo i cento metri o il salto in lungo esistono dati oggettivi, Carl Lewis o Ben Johnson corrono o saltano più veloce e più in alto di tutti, ma qual è la media di tutti gli esseri umani nella corsa o nel salto? E poi, è così importante ai fini della sopravvivenza della specie?

Le piante sono intelligenti perché risolvono problemi, sono capaci di adattarsi ai cambiamenti climatici e sanno escogitare strategie ai fini della sopravvivenza. Un albicocco, per esempio, anche se non sa dipingere la Cappella Sistina è sicuramente più capace di adattamento e di trovare soluzioni ai fini più importanti di qualunque altra cosa: la propagazione e sopravvivenza della specie. Noi umani abbiamo coltivato l’idea di «meglio», ogni specifica civiltà umana nel corso dei millenni ha ritenuto di «far meglio» delle altre, ma questo è servito solamente per l’assoggettamento degli altri. L’assoggettamento del resto delle forme viventi che abbiamo ridotto a cose.

Non gli alberi ma «il legname», non i pesci ma «il pescato», non gli animali ma il «bestiame», ovvero abbiamo saputo solo quantificare senza realmente apprendere nulla da ciò che è il nostro ambiente vitale. Uno scienziato che ci osservasse, per esempio da Alfa Centauri, e che riflettesse, senza i nostri pregiudizi antropocentrici sulla vita sulla terra, si farebbe delle grasse risate apprendendo che in questi quattro miliardi di storia della vita su questo pianeta noi esistiamo da trecentomila, la nostra storia vera dati di soli quindicimila e che nessuno scienziato assennato attualmente ci assegna la probabilità di sopravvivere più di duecento anni a fronte della sopravvivenza media di una specie di quattro milioni di anni. E noi saremmo i sapiens sapiens che si pretendono superiori ad un albicocco? Agli occhi di quello scienziato di Alfa Centauri appariremmo come il più stupido tra gli animali, saremmo visti come una specie che si comporta come pochi altri organismi che causano la morte dell’essere vivente che li ospita.

Noi uomini pensiamo che sia l’ambiente a doversi adattare a noi e non viceversa. Questo comportamento tracotante i Greci lo chiamavano hybris. Le piante sanno adattarsi, sanno trovare soluzioni, sanno trarre energia dal sole. Tutto ciò dimostra che sì, le piante sono intelligenti. Ragionano come specie e non come individuo, privilegiando il continuo adattamento.

Tutto questo ci ostiniamo a negarlo o a far finta di non capire esattamente come un noto rettore dell’università di Oxford che bellamente affermava: «Ciò che io non arrivo a conoscere non è conoscenza». Un atteggiamento miope e pericoloso. E’ questo tipo di atteggiamento che ci ha condotto alla catastrofe attuale. Nel mondo scientifico solo una ridicola percentuale che non arriva neppure all’uno per cento, sono lo zero virgola qualcosa e sono per questo motivo detti «negazionisti», nega il global warming, il riscaldamento globale. Uno studio di Nature già nel 1975 annunciava un aumento medio della temperatura terrestre di più o meno quattro gradi.
Ciò significa che una città come Trieste avrà una temperatura come Catania e Catania, per contro, avrà una temperatura come un villaggio del Sahel. Entro sessant’anni il livello dei mari si innalzerà di un metro, ciò significa che la pianura padana diventerà un golfo, la costa sarà sommersa da Cesena a Grado, e quanto sta già accadendo a Venezia è sotto gli occhi di tutti.

Cosa si può fare per invertire o rallentare il riscaldamento climatico? Se, ed è pura utopia, smettessimo tutti di usare automobili, navi ed aerei a motore, la riduzione nell’emissione di CO2 sarebbe ridotta del 10%, se smettessimo di mangiare carne sopprimendo gli allevamenti intensivi, la riduzione sarebbe di un altro 20%. Secondo uno studio del Politecnico di Zurigo, solo mettendo a dimora mille miliardi di piante potremmo abbattere davvero i gas serra e scongiurare la catastrofe.
Sarebbero le piante a trattenere ed intercettare la CO2 . Stefano Mancuso dice di avere firmato l’appello lanciato da Laudato sì per piantare sessanta milioni di alberi in Italia ma già l’Irlanda vuole metterne a dimora 350 milioni. Solamente le piante e non la «tecnologia» ci potranno salvare dalla catastrofe. Le piante che sono sanno stare al mondo traendo energia dal sole ed effettuando la fotosintesi insegnandoci l’adattamento ed il mutuo appoggio. Il riferimento è ad una bella opera di Kropotkin degli inizi del Novecento che si chiamava proprio così. Il mutuo appoggio, il sapersi sostenere reciprocamente potrà salvare l’umanità, non certo continuare la logica del greenwashing che è solamente «business as usual». Dal pubblico sono giunte diverse domande. Sul ciclone che ha schiantato abetaie intere nel Veneto lo scorso anno, Stefano Mancuso ha ricordato che ogni anno in Europa cadono dai trenta ai quaranta milioni di alberi solo a causa del vento. Ciò è colpa del fatto che quelle non sono foreste ma equivalgono a coltivazioni come quelle del mais, totalmente artificiali, non sviluppano relazioni né mutuo appoggio alcuno come nei boschi veri che sono costituiti da infinite specie e ricchezza di biodiversità. Avendo egli richiesto il numero degli alberi caduti, gli hanno risposto «tre milioni di metri cubi di legname» e proprio in questo averli piantati solo ai fini umani che risiede la loro fragilità. Sul recupero dei suoli inquinati in località come Seveso, ha affermato la capacità naturale degli alberi di fitodepurazione, i composti organici come il tricloroetilene vengono scomposti e quindi scompaiono col tempo mentre i metalli pesanti come mercurio o cadmio vengono immagazzinati dalle piante ma restano nella fibra.

Neppure un’ora e Stefano Mancuso ha saputo coinvolgere e appassionare noi che amiamo da sempre la «nazione delle piante», abbiamo avuto la riprova che si può imparare molto dagli alberi. Chi non lo capisce è un homo insipiens e alla luce della catastrofe presente è meno intelligente di un albicocco, senza dubbio alcuno.

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