Di fronte alla complessità della contemporaneità, la street art si afferma come mezzo di lettura importante, raccontando con immediatezza avvenimenti politici e sociali che si susseguono a gran velocità. Con semplici segni la street art sa trasportare l’osservatore su un piano interpretativo, dove ironia e denuncia sociale si uniscono liberando nuove riflessioni sulla realtà. Ne è un esempio il lavoro dell’artista Laika 1954 protagonista di Life is (not) a game, documentario e opera prima di Antonio Valerio Spera, presentato alla Festa del cinema di Roma. Il regista con tratti ironici, strizzando l’occhio al genere dei super eroi, racconta le gesta dell’artista romana che attraverso le sue opere affronta temi sociali sempre più importanti come l’immigrazione, il razzismo, l’omofobia.

Com’è avvenuto il vostro incontro e com’è nato il vostro progetto?
Antonio Spera: Il progetto è nato sul finire del 2019 quando sono rimasto intrigato dalle opere di Laika e dal suo personaggio. Mi sono detto che questa artista poteva dire qualcosa d’interessante e soprattutto avere delle potenzialità cinematografiche, un personaggio mascherato che gira di notte per la città ad attaccare sui muri dei poster che sono anche delle denunce sociali. Inizialmente il film doveva essere un documentario sulla street art in generale con un focus su Laika. Poi la storia ci ha travolti, prima la pandemia e poi la guerra, quindi abbiamo deciso di fare un documentario su questi tempi raccontandoli attraverso gli occhi di questa artista perché in fondo la street art essendo istantanea racconta perfettamente l’attualità e gli avvenimenti in tempo reale.

Laika: All’inizio era un po’ titubante perché la vedevo come una cosa difficile, mi preoccupava il fatto di mettere in luce il dietro le quinte della mia vita d’artista e specialmente mi preoccupava il fatto di essere seguita da altre persone durante i blitz. Poi mi sono detta che poteva essere una sfida, ma soprattutto che i miei messaggi avrebbero assunto un significato forse più importante e sicuramente sarebbero rimasti nel tempo. Alla fine ho accettato e mi sono meravigliata di come Antonio e la sua troupe siano riusciti a seguirmi silenziosamente anche in alcuni blitz molto complicati, dove ero più in ansia per loro che per me, ma è andato tutto bene. Questo lungometraggio è stato un grande regalo che mi ha fatto Antonio perché mi dà la possibilità di cogliere alcuni aspetti della mia vita che non riesco vedere.

Laika com’è nato il tuo personaggio, qual’è il tuo modus operandi e perché hai scelto questo nome?
Laika è nata per gioco. Quando realizzai l’opera per De Rossi, con delle punte ironiche e una certa arrabbiatura nei confronti della vecchia proprietà che lo aveva mandato via, notai che ci fu un riscontro mediatico forte, la gente si emozionava. Rimasi colpita di quanto potere potesse avere un pezzo di carta su un muro, così mi dissi perché non utilizzare i poster come mezzo per dire la mia su dei temi importanti come i diritti umani e farne una vera e propria missione. Da lì Laika è entrata gradualmente nella mia vita fino a prendersi una grande fetta delle mie giornate. L’ironia è una componente importante del mio lavoro vedi per esempio le opere che ho fatto sui diritti civili LGBT come opera sull’eurodeputato, dove ironicamente e in maniera irriverente bacchetto con molta rabbia uno dei fautori delle leggi omofobe ungheresi. Per quanto riguarda il nome mi piaceva l’idea di avere il nome del primo essere vivente che è stato nello spazio perché per me lo spazio è sinonimo di ambizione, di andare lontano e vorrei che anche il mio messaggio andasse sempre più lontano e sempre più in alto perché dall’alto a volte è tutto più chiaro. Ho iniziato da una vena ironica e gradualmente mi sono arrabbiata sempre di più e ho assunto quest’anima attivista; è fondamentale occuparsi di politica e preoccuparsi del nostro futuro.

Antonio, il film copre un’arco temporale lungo, come avete lavorato alla sceneggiatura e al montaggio?
Il film è cambiato in corsa d’opera. All’inizio abbiamo girato una lunghissima intervista a Laika, poi siamo voluti uscire dai canoni convenzionali del documentario e l’intervista non è stata utilizzata. Io e la sceneggiatrice Daniela Ceselli che ha firmato opere importanti di Marco Bellocchio, abbiamo scritto il film mano a mano che Laika realizzava un’opera così da capire in che modo costruire la narrazione. Poi al montaggio c’è stata una riscrittura con lo straordinario montatore Matteo Serman che è riuscito a dare il giusto ritmo considerando anche lo stile pop che io e il direttore della fotografia Vincenzo Farenza volevamo dare. Un altro contributo importante è stato quello delle musiche originali di Lorenzo Tomio; musica straordinaria e a mio parere fondamentali. Credo che guardando la dimensione del film tutto si è mosso come una perfetta orchestra e Laika si è resa disponibile al nostro gioco, credo che in qualche modo si è rispecchiata nell’estetica che abbiamo scelto. Quando ha deciso di andare in Bosnia siamo noi che ci siamo resi disponibili al suo gioco, un gioco tragico e drammatico, emozionante e indimenticabile, purtroppo e per fortuna.

Cosa vi ha spinto ad andare in Bosnia e come avete organizzato le riprese?
Laika: La tematica dei rifugiati mi è molto cara e ho sentito l’esigenza di fare luce sull’incendio nel campo di Lipa, dove i migranti vivevano in condizioni disumane. Però mi chiedevo quanto valore può avere un poster su una tematica del genere messo a Roma nella solita comfort zone. L’ennesima ambasciata non avrebbe avuto lo stesso impatto, lo stesso significato e sarebbero state delle opere fatte per persone lontane fisicamente da me. La cornice giusta doveva essere il confine croato bosniaco quindi ho deciso di partire e chiedere ad Antonio di seguirmi. Ero partita con vari bozzetti e vedere i segni di violenza sui corpi di queste povere persone ha confermato ciò che avevo realizzato a priori. Attaccare quell’opera nella fabbrica dismessa che è diventata un rifugio, è stato per loro importante perché si sono sentiti rappresentati da quell’immagine e per me assume il giusto significato perché c’è stato un lavoro di condivisione con queste persone ferme lì in attesa di provare l’ennesimo «game», passare il confine. Un ricordo che ho molto chiaro è il rumore delle infradito sulla neve è una delle cose che mi è rimasta in testa e così innaturale camminare a piedi nudi nella neve e questo ti dà il senso di quanta disperazione e in che condizioni vivono queste persone, esseri umani che hanno il diritto di sperare in un futuro migliore forse anche più di noi, perché noi siamo privilegiati.

Antonio: Abbiamo fatto dei sopralluoghi per capire la situazione che c’era al confine, soprattutto dopo l’incendio nel campo di Lipa. Per esempio alle troupe non bosniache non era consentito riprendere all’interno del campo, quindi all’inizio avevamo usato del girato di proprietà della IOM e quando siamo andati a chiedere i diritti ci hanno negato l’uso delle immagini e abbiamo dovuto comprarle da altre emittenti televisive. Il fatto che la OIM non abbiano voluto darci le riprese dell’incendio è interessante, perché non hanno voluto raccontare un fatto drammatico di cui erano colpevoli. In questa parte del film è stata Laika la nostra regista, era lei che andava in avanscoperta nei boschi ed è stata lei a trovare la fabbrica abbandonata, dove ha incontrato e ottenuto la fiducia dei migranti che avevano creato una mini società autogestita e volevano che qualcuno desse voce alla loro storia.