Visioni

L’agricoltura futuribile alla tavolata teatrale di Tovaglia a quadri

L’agricoltura futuribile alla tavolata teatrale di Tovaglia a quadriUn momento di «Liceo contadino», Tovaglia a quadri 2022

Palcoscenici Nella Valtiberina fino al 20 agosto, intorno alle portate, un ensemble coeso di cittadini si confronta con i problemi della modernità

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 agosto 2022
Gianfranco CapittaANGHIARI (AR)

È tornata anche quest’anno, immancabile ormai (dopo più di vent’anni che ne hanno fatto una tradizione molto seguita) e imperdibile, quasi una sorta di verifica dal vivo di mutamenti di costume e di fede (innanzitutto politica), e di cultura che ogni volta scopre qui le sue contraddizioni e il suo livello, neanche tanto nascosto nella accelerazione mediatica. Si tratta di Tovaglia a quadri, lo spettacolo che ogni anno d’agosto viene «servito» nel corso di una cena a limitate tavolate di «privilegiati», che oltre a mangiare squisitamente possono fare i conti con diversi falsi valori, equivoci mediatici, trasformazioni strutturali ed epocali, di cui almeno una sera si può ridere, gustando specialità tipiche della migliore tradizione della Valtiberina.

LA LOCATION è quella del Castello di Sorci (fino al 20 agosto) che da un paio d’anni costituisce la nuova casa della compagnia. Al cui timone sono sempre gli autori, Paolo Pennacchini e Andrea Merendelli (anche regista), di uno spettacolo che mostra ormai una tradizione solida e ben rodata. Gli stessi interpreti, che nella vita «feriale» fanno i mestieri più diversi, sono ormai un ensemble immedesimato e coeso nei ruoli, nei quali, dopo la prima esperienza piace riconoscersi anche allo spettatore. Quest’anno il titolo solo apparentemente bizzarro è Liceo contadino, una sorta di ossimoro che denuncia insieme il declino di un’agricoltura sempre meno redditizia, l’illusione di ammodernamenti e «ristori» in grado di sanarla, la comunicazione che nello stile che tutti conosciamo sparge fumose illusioni di rinascita, riappropriazione (e ahinoi anche di rimbambimento) con mediatiche campagne pubblicitarie e autopromozionali.

IL «LICEO CONTADINO» del titolo dovrebbe insegnare, con indispensabili finanziamenti pubblici, come tornare all’amore per la terra e l’agricoltura, ma più che l’amore, le modalità pratiche e «moderne» per renderla fruttuosa con il minimo di sforzi e investimenti. Come accade del resto per tante altre illusorie attività (e conseguenti guadagni) che i mass media ci propongono come facilmente (con un po’ di fantasia) raggiungibili e fruttuose. Scorre, dentro il racconto, il fiume di delusioni e sconfitte che i lavoratori hanno da sempre subito, e l’amara consapevolezza che particolarmente qui, al confine tra Umbria e Toscana (quelle che furono le più forti regioni rosse) da una parte si sradica e dall’altra finisce per confluire in certezze poco attendibili quanto illusorie.

Qui il confronto tra vecchio e nuovo si fa comico scontro tra sane e sperimentate tecniche abituali in agricoltura, e fantascientifiche (ma neanche troppo) elucubrazioni sulle nuove tecnologie possibili. Il tono e la padronanza di commedia rendono possibile, col sorriso sulle labbra, capire che la fatica resterà primaria, ma i suoi frutti non avranno la stessa attendibilità. Alcune invenzioni «futuribili» trascinano la risata, quelle tradizionali hanno un prezzo alto di sudore e fatica ma anche la certezza dei risultati. In questo bilanciamento, le belle canzoni ripescate e rielaborate dal maestro Mario Guiducci (con un paio di fantastiche voci femminili) stemperano l’acidità di un confronto astratto e magari solo ideologico, per riportare le motivazioni nell’alveo del vissuto reale. Tanto che, non tanto a sorpresa, protagonista risolutivo si rivela il lavoratore africano, che della fatica è costretto a farsi carico per ovviare e superare il lato «ideologico» di quel conflitto. Mentre al suo smarrimento impazzano vanamente un direttore scolastico di vanità, i giovani e spaesati «apprendisti», un predicatore che ha ben presente l’antico testamento dei lavoratori (citando don Milani), una «bidella» che non riordina le situazioni ma sicuramente l’umore, un «mago design» dei tronchi da impilare, un trattorista alla cieca, e perfino una mamma molto aggiornata quanto invadente, e la sua saccente figlioletta.
Insomma si ride a una passerella da commedia all’italiana, e si gusta con gola la cena di bringoli al sugo finto e stracotto al vino rosso. Oltre lo stomaco però, si apre il paesaggio dell’intelligenza che ogni spettatore dovrà decidere dentro di sé. Prosit!

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