A raccontare l’agosto iracheno è una foto: un soldato con appesa al giubbotto la bandiera del suo paese. Chiede, dice la didascalia, di restare nelle piazze anche in suo nome. Il soldato è sciita. Sono sciiti anche i manifestanti, che da settimane scendono per le strade di Baghdad, Najaf, Karbala, Bassora, Nassiriya, roccaforti sciite dove sono comparse tende di protesta, spesso target della polizia. Un movimento civico nato su basi non settarie, che sventola bandiere irachene e di cui fanno parte laici, liberali, religiosi, comunisti, nazionalisti.

«Ancora ieri ci sono state manifestazioni a Baghdad e in molte città nel centro e nel sud – riporta al manifesto il giornalista iracheno Salah al-Nasrawi – Ma il dispiegamento di forze di sicurezza ha limitato il numero di manifestanti».

Dove sta la notizia? La grande protesta, partita sulla spinta dei blackout elettrici che impedivano ai condizionatori di funzionare in un’estate torrida, si è presto allargata ai problemi strutturali del paese. A manifestare, però, non è la comunità sunnita (emarginata dal governo post-Saddam e facile preda della propaganda dell’Isis), ma quella sciita, quella che gode della maggioranza parlamentare. Ma che, come ogni altro iracheno, è soffocata dallo stesso sistema: mancanza di servizi, tassi di disoccupazione e povertà incontrollabili, assenza quasi totale di ricostruzione e ridistribuzione della ricchezza, disuguaglianza, incompetenza e corruzione strutturali, politiche settarie, moltiplicazione del numero di impieghi pubblici figli del sistema clientelare disegnato dall’ex premier al-Maliki.

Al-Maliki non c’è più, ma il paese non è cambiato. A poco servono gli sforzi del primo ministro al-Abadi, in carica da un anno. Tra questi la riapertura della Zona Verde, area nel cuore della capitale fortificata dall’invasione Usa. Ieri al-Abadi ha ordinato di riaprire la zona off limits alla cittadinanza. Dentro stanno le sedi degli uffici governativi e militari e le ambasciate straniere: riconsegnarla a Baghdad sarebbe il segno di una rinascita che sul terreno non c’è.

Potrebbe esserci se diventasse realtà il pacchetto di riforme che il parlamento iracheno ha approvato all’inizio di agosto e volto a ristrutturare il decadente sistema istituzionale de facto. Un al-Abadi esitante tra le richieste del popolo e gli interessi dei partiti dice di avere grandi progetti: taglierà un terzo dei ministeri, ridurrà del 45% lo stipendio ai parlamentari, cancellerà poltrone da vice ministro e vice segretario, allontanerà i funzionari incompetenti o corrotti, faciliterà le inchieste giudiziarie su abuso di ufficio e concussione.

Ciò che, però, resta intatto è la divisione di potere tra comunità di cui il parlamento è specchio: il 52% dei parlamentari è sciita, il 21% sunnita e il 19% kurdo. Un settarismo istituzionalizzato contro cui si scaglia l’Ayatollah al-Sistani, il più autorevole religioso sciita del paese. Ieri è tornato a fare pressioni sul governo perché metta in pratica le riforme e eviti così l’esplosione dei settarismi.

Ma al-Sistani ha anche avvertito del pericolo di uno sfruttamento politico della rabbia popolare. A cavalcare l’onda delle manifestazioni si sono fatti già vivi gruppi politici diversi. Tra questi il religioso sciita Muqtada al-Sadr che ha chiesto ai propri seguaci di prendere parte alle proteste. Al-Sadr gode di un’enorme capacità di mobilitazione e di una vera e propria milizia, le Brigate della Pace, nate dall’Esercito del Mahdi, forza di resistenza all’occupazione Usa. Quella di al-Sadr – che ha sempre mantenuto le distanze da Teheran – potrebbe essere una presenza ingombrante per un governo dipendente dall’Iran e un paese gestito sul piano militare da milizie legate alla Repubblica Islamica. Non è un caso che a Teheran abbiano additato le manifestazioni come anti-religiose e orchestrate da nemici esterni.

Ingombrante sarà anche la resistenza occulta dei partiti politici sciiti, molti dei quali basati a sud dove le proteste sono più calde. Alcuni approvano, altri tentennano: tutti cercano di non venir spazzati via e si aggrappano alla debolezza di al-Abadi che di questi partiti ha bisogno per sopravvivere. Come ha bisogno dell’Iran.