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Laforgue, il poeta della Luna nella nuova frontiera dello sguardo

Laforgue, il poeta della Luna nella nuova frontiera dello sguardoClaude Monet, "Mer agitée à Etretat", 1883, Lione, Musée des Beaux-Arts

Jules Laforgue, "L’Impressionismo e altri scritti", a cura di Alessandro del Puppo, Abscondita Rispetto alla grande tradizione francese ottocentesca (Baudelaire, Huysmans...), l’approccio al visivo dello scrittore simbolista è più teorico, astratto: e vede nell’occhio impressionista l’apice di un’evoluzione

Pubblicato circa un anno faEdizione del 10 settembre 2023

Un’idea del prestigio di cui godeva Jules Laforgue presso l’avanguardia francese dei primi del Novecento la si può avere dal fatto che una sua poesia, dedicata, come tante altre, alla luna (Encore à cet astre), avesse ispirato nel 1911 a Marcel Duchamp un disegno, servito poi come punto di partenza per uno dei quadri simbolo dell’arte moderna, il Nu descendant un escalier no 2. L’artista era attratto dai testi di questo singolare simbolista, squattrinato e inconcludente, nato a Montevideo nel 1860 e morto nel 1887 a Parigi, pochi giorni dopo avere compiuto i ventisette anni, il cui unico mestiere di una qualche durata, accanto alla poco redditizia attività letteraria, fu quello di leggere gli articoli di stampa francesi all’imperatrice Augusta di Germania, moglie di Guglielmo II, professione che svolse fra il 1881 e il 1886 e abbandonò per sposare l’inglese Leah Lee, sopravvissutagli soltanto un anno. Benché i suoi rapporti con l’imperatrice fossero cordiali, Laforgue fu lieto di lasciare il gelo degli inverni berlinesi, per ritrovarsi nel non molto più clemente clima parigino, costretto a chiedere soldi in prestito ad amici e conoscenti, fra i quali il «benedettino-dandy di rue de Monceau», Charles Ephrussi, nel cui studio all’inizio del 1881 Laforgue, poco più che ventenne, aveva trovato un primo impiego come segretario, ruolo che quindici anni dopo ricoprì Marcel Proust.

Ritratto di Jules Laforgue inciso da Felix Vallotton per “Le Livre des masques” (1898) di Remy de Gourmont

Nello studio di Ephrussi, storico, critico e mercante d’arte, nato a Odessa nel 1849, prima collaboratore e più tardi editore della «Gazette des Beaux-Arts», Laforgue, studente svogliato al punto di farsi bocciare alla maturità, aveva avuto l’occasione di ampliare le sue conoscenze sull’arte moderna. Quando nel dicembre del 1881 a Berlino è in trepida attesa del libro su Albrecht Dürer del suo antico mentore, per recensirlo poi sulla «Gazette des Beaux-Arts», gli scrive: «Ogni riga del vostro bel libro mi farebbe tornare alla mente tanti ricordi. Soprattutto le ore passate a lavorare, soli nella vostra stanza, dove esplodeva la nota colorata di una poltrona gialla. E gli impressionisti: due ventagli di Pissarro (…), i meli in fiore di Monet arrampicati su una collina e la donna selvaggia e spettinata di Renoir». E continua rammentando i quadri di Berthe Morisot, Mary Cassatt, Edgar Degas, Édouard Manet e Alfred Sisley che ornavano quelle pareti.

Era stato Ephrussi, per tramite di Carl Bernstein, suo cugino e collezionista d’arte, ad aiutare il giovane poeta a trovare il lavoro di lettore alla corte di Berlino. L’impressionismo e l’arte tedesca, la cui conoscenza matura in Laforgue negli anni trascorsi in Germania, sono i due fuochi principali del libro L’Impressionismo e altri scritti, pubblicato da Abscondita per la cura di Alessandro Del Puppo (pp 123, e 14,00). Il libro raccoglie gli scritti di critica d’arte inediti in vita di Laforgue, egli stesso un bravo disegnatore che aveva studiato con Henri Lehmann negli stessi anni di Georges Seurat. Se dei testi letterari di Laforgue abbiamo in larga parte versioni licenziate dall’autore, il destino degli scritti di critica d’arte è diverso. Gli articoli pubblicati – tutti, tranne uno, sulla «Gazette des Beaux-Arts» o sul supplemento della rivista, «La chronique des arts et de la curiosité» – furono spesso vittima di un passaggio del capo della redazione, Louis Gonse, da cui uscirono parecchio alterati. A tal punto che, in una lettera all’amico Charles Henry, Laforgue gli consigliava di risparmiarsi la lettura dell’articolo su Adolf Menzel, pubblicato sulla «Gazette des Beaux-Arts» nel 1884, perché il caporedattore lo aveva talmente rimaneggiato da falsarne il senso.

Se l’intervento di Gonse sull’articolo è riconoscibile in un’interpolazione chauvinista, il resto sembra di mano dell’autore e rivela un genuino interesse nei confronti del maggior artista tedesco della seconda metà dell’Ottocento, antesignano, in gioventù, della pittura della vita moderna. Smaltiti, almeno in parte, i veleni della guerra franco-prussiana, all’alba degli anni ottanta i francesi avevano cominciato a riconoscere la grandezza di Menzel: prima di Laforgue sulla «Gazette des Beaux-Arts» del 1880 Édmond Duranty aveva già individuato, con formula felice, una «nevrosi del vero» nell’attenzione ossessiva con cui il pittore guardava la realtà.

Se Laforgue ammirava la proiezione sul mondo di Menzel e l’infinita mutevolezza del suo sguardo, gli altri due artisti di cultura germanica che il poeta preferiva, Arnold Böcklin e Max Klinger, non erano realisti, ma pittori dell’immaginario. Del primo Laforgue ammirava la capacità di restituire il sovrannaturale con «impeccabile» naturalismo; nei quadri e soprattutto nelle acqueforti del secondo, nato tre anni prima di Laforgue e con il quale vi fu anche per qualche tempo un’amicizia, apprezzava invece l’esercizio dell’immaginazione e la sensibilità eccentrica. Le preferenze per Menzel, Böcklin e Klinger mostrano un gusto sicuro, aperto e non dogmatico, ben orientato nell’ambito di una cultura visiva, quella tedesca, che Laforgue vede condizionata da una qualità «letteraria» opposta alla sensibilità «ottica» dei francesi.

Questo, in breve, lo sfondo su cui valutare i due scritti maggiori pubblicati nel libro di Abscondita, inediti alla morte dell’artista e pubblicati soltanto negli anni successivi. Il primo era stato scritto in occasione di una mostra di opere impressioniste, tenutasi nel 1883 presso la galleria di Fritz Gurlitt a Berlino, comprendente dipinti provenienti dalla galleria Durand-Ruel di Parigi e arricchita da quadri della collezione Bernstein. Il testo sull’arte tedesca era stato invece concepito come vasta premessa teorico-critica a uno studio più ampio sull’argomento che non vide mai la luce. I due scritti, compiuti e privi di rettifiche apportate da capiredattori ostili, hanno vocazione essenzialmente estetico-filosofica: pochi i nomi, scarsa l’analisi formale, assenti gli aneddoti… Costituiscono piuttosto il tentativo di mettere a fuoco i caratteri specifici dell’arte moderna rispettivamente in Francia e in Germania.

Nel saggio sull’impressionismo, il più noto testo di critica d’arte di Laforgue e che ebbe una vasta eco, anche italiana (di cui parla Del Puppo nella postfazione), l’autore sottolinea quanto l’occhio impressionista fosse libero dal vincolo dei tre cardini su cui poggiava l’idea del bello assoluto tradizionale: disegno, prospettiva e illuminazione d’atelier. Più che primitivo o ingenuo, e qui sta forse la novità del saggio, secondo Laforgue l’occhio impressionista costituisce lo stadio di evoluzione «più avanzato» dello sguardo, capace di cogliere e restituire «le combinazioni di sfumature più complicate che si conoscano». Nell’argomentazione l’autore si serve di un insieme vasto e idiosincratico di fonti, dall’estetica di Hyppolite Taine, i cui corsi aveva seguito all’Ecole des Beaux-Arts, all’evoluzionismo darwiniano, alla filosofia dell’inconscio di Eduard von Hartmann, alle scienze esatte, passione, quest’ultima, condivisa con l’amico Charles Henry, di cui aveva recensito la Introduction à une esthétique scientifique (1885), testo fondamentale per Seurat.

Nel saggio sull’arte tedesca Laforgue tornava sul tema dell’evoluzione dell’occhio in quella cultura, il cui genio artistico, secondo l’autore, si esprimeva più nella musica che nell’arte visiva: in Germania l’occhio si trovava in uno stadio di evoluzione meno avanzato dell’orecchio e prima che i valori potessero riallinearsi, «molta acqua della Sprea» doveva passare «sotto i ponti».

I due scritti, affiorati fortunosamente intatti fra le note sparse dedicate all’arte da Laforgue, vanno controcorrente rispetto alla tradizione della critica d’arte ottocentesca di scrittori e poeti come Gautier, Zola, Baudelaire, o Huysmans, basata su un intenso corpo a corpo con le opere e le personalità degli artisti. Laforgue guarda altrove: alla teoria e all’evoluzione dello sguardo. La sua critica è, in una parola, più astratta, a momenti ardua, ma capace di battere con coraggio territori inesplorati.

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