Cultura

L’affresco che racconta il male di vivere

L’affresco che racconta il male di vivereUn particolare del Trionfo della Morte

Scaffale «Il Trionfo della Morte» conservato a Palazzo Abatellis di Palermo narrato da Michele Cometa, in un libro uscito per Quodlibet

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 giugno 2017

Ferdinando Bologna scriveva che «l’affresco del Trionfo della Morte di Palermo…resta più noto che conosciuto». È esattamente così, perché conoscere quel terribile e bellissimo affresco, dipinto sul muro meridionale del cortile di palazzo Sclafani a Palermo, cioè l’arcispedale della città fondato nel 1430, è impresa difficile e faticosa. Ci si misura un libro di Michele Cometa (Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, Quodlibet, pp. 180, euro 16) che legge l’affresco per il suggestivo tramite della storia dei concetti. Ma la storia dei concetti è necessariamente storia dei concetti espressi, narrati, e nell’opera di Palermo la quantità dei concetti significati è immensa, smisurata eppure desiderosa di presentarsi come summa.

L’AFFRESCO, oggi staccato e conservato a palazzo Abatellis, sede della galleria nazionale della Sicilia, era parte di un complesso di pitture che comprendeva un Giudizio Universale, più o meno contemporaneo, e un più tardo Paradiso. Già l’identificazione di uno e un solo committente non è facile, ma è certo che, già nel 1432, Alfonso il Magnanimo autorizzava la riunione dei sette vecchi ospedali in quel vetusto palazzo di un secolo prima che doveva essere restaurato integralmente e adattato per l’uso «moderno».
Diventa quindi necessario, per intendere anche l’affresco del cortile, avere presente cosa fu la cultura aragonese napoletana nella autunnale civiltà medievale europea. L’opera è definita perfettamente da Cometa «un masso erratico», proprio come un meteorite, perché tale è l’affresco. In un meteorite c’è una innumerevole quantità di diversi minerali, più o meno preziosi, di materiali sedimentati e di sostanze organiche, il tutto a temperature elevate. Ecco, la metafora tratteggia a pieno il Trionfo.

È MOLTO IMPORTANTE reperire e isolare ogni componente letteraria, religiosa, filosofica, giuridica e, per la parte figurativa, catalana, fiamminga, franco-borgognona, dai miniatori del duca di Berry a Sluter, solo per il tempo necessario a intenderne la sostanza e lo spessore. Ma indispensabile rimane la capacità ardua di guardare a quell’affresco come si deve guardare all’intera e complessa civiltà per figura di quei decenni, perché non farlo – lasciano intendere le pagine del libro- significa lasciarselo sfuggire.

QUELL’UMANITÀ che quasi inconsapevolmente, ma certo elegantemente, degradata frana dal bordo in alto a destra verso il centro basso della scena come se il gran vento della morte, o della Storia, la facesse mulinare, chissà se per un caso è un’approssimazione assai vicina a una spirale di Fibonacci rovesciata, che contrasta molto con una spazialità a prima vista sgangherata, ma che, in realtà, torna volutamente a schiacciarsi in una sorta di bidimensionalità per adattarsi e farsi cifra di un non-tempo che pure è quello, umanissimo, dell’angoscia moderna. E che, dal punto di vista figurativo, fa convergere la quasi sicura conoscenza dell’autore della scultura borgognona dentro uno spazio da arazzo fiammingo.

LA ASSOLUTA MODERNITÀ dell’artista del Trionfo è proprio in questa dipingere carico di moltissimi saperi, di apporti di culture visuali che diventano gli uni inferenza dell’altro. Ma risiede anche nel come tratta l’angoscia e il tempo. Nei precedenti e notissimi Trionfi della morte di Pisa e di Firenze, nonostante il dolore della vita e della sua fine producano risultati sardonici nei volti e nelle parole degli stravolti astanti, ciò che aleggia negli sguardi e nei gesti è pur sempre la paura. A Palermo ogni sguardo che ci si appunta addosso per tirarci dentro la bufera cristallizzata è espressione perfetta della molesta tragedia dello spleen, di un umor nero che soffoca come l’odore della morte, che stizzisce come un abito buono irrimediabilmente macchiato.

Questo mal di vivere che dissecca l’antico terrore si dissemina nell’opera, riprendendo una tradizione di simultaneità narrativa tutta medievale ma volontariamente porgendola in un infinito contemporaneo che tale era per l’osservatore intimorito della metà del XV secolo, ma che, ancora di più, lo è per chi oggi, ammutolito, si mette davanti all’indimenticabile affresco.

A OGNI PAGINA Cometa obbliga il lettore a correre dietro all’infinita corrente dei complicati apporti che veloci viaggiavano nel Mediterraneo quand’anche calanti da zone continentali. E in quella ricchissima e affannata koinè viene narrato un mondo e quella modernità rutilante e cupa che spesso non vogliamo vedere, ma che riconosciamo al volo fin da quando fu letta per la prima volta l’apertura del quarto sigillo dell’Apocalisse.

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