L’affascinante viaggio alla ricerca della pietra verde
Geologia Incontro con R. Compagnoni emerito di petrologia all'Università di Torino
Geologia Incontro con R. Compagnoni emerito di petrologia all'Università di Torino
Nel Giurassico, circa 200 Ma (milioni di anni) fa, è accaduto qualcosa di importante alla scala geologica globale in seguito alla separazione della placca Europea dalla placca Africana: l’apertura dell’Oceano Piemontese (o meglio Ligure-Piemontese). La lacerazione della crosta continentale delle due zolle ha fatto affiorare il sottostante mantello oceanico peridotitico con la sua copertura di lave basaltiche, che oggi ritroviamo deformati e trasformati (metamorfosati) nelle cosiddette ofioliti (o pietre verdi, per il loro colore predominante delle Alpi occidentali. Alla fase di distensione è seguita un’importante fase di compressione tra le due placche, che ha portato prima alla chiusura dell’oceano e poi, tra circa 50 e 35 Ma, alla collisione tra la placca Europea e la placca Africana, che ha prodotto il sollevamento della Catena Alpina. Il mio interessamento a pietre e minerali, in generale, non è mai andato oltre a quei difficili momenti in cui sei costretto a slalomeggiare per evitarle durante una discesa su una pista ormai segnata dalle temperature primaverili. Ma è interessante ricordare che fin dal Neolitico l’uomo preistorico aveva imparato a selezione alcune rocce con particolari caratteristiche tecnologiche (in particolare densità, durezza e tenacità). Per ottenere attrezzi da lavoro e da difesa, specialmente asce, le rocce più utilizzate sono state le giade provenienti dalle ofioliti affioranti nel Massiccio del Monviso, che gli archeologi trovano distribuite in tutta l’Europa occidentale e meridionale dall’Italia alla Scozia. Sono momenti importanti, dettati dalla facilità o meno di reperire il materiale, che cambiano le regole del gioco. Tagliare un tronco od offendere senza essere colpiti sono stati passi importanti dell’evoluzione umana.
Le uniche pietre, che di solito non mi lasciano indifferente, sono quelle che si possono trovare facilmente durante un’escursione in montagna: decorate con frecce e crocette, di solito rosse, che ti indicano il sentiero da seguire; ho sempre trovato queste pietre molto rassicuranti! Per il resto, le rocce sono state sempre e solamente parte integrante del paesaggio, con ammirazione, sforzo fisico fino ad un felice incontro con un torrente di acqua gelida. Il trekking, sia esso praticato amatorialmente oppure a livello agonistico, sulle alte cime Himalayane, l’alpinismo e lo speleoapinismo sono invece i campi più affascinanti, a livello sportivo, entro i quali si può utilizzare una conoscenza più profonda così particolare come è quella delle rocce e dei minerali in senso lato. Sebbene il lavoro sul campo, con il martello in mano, a spaccar pietre, di uno studente di geologia necessiti di sapere che in quella zona posso trovare quello che cerco (può sembrare banale ma si rischia di passare almeno dei decenni senza trovare niente), anche un alpinista che decide di piantare un tassello, in un punto piuttosto che in un altro, dovrebbe essere in grado di riconoscere che in certe zone ci si può imbattere in graniti, rocce in genere affidabili, oppure in serpentiniti che possono contenere talco, per definizione scivoloso, al contrario del «magnesio» in polvere, grande amico degli arrampicatori soprattutto liberi. Ecco perché le pareti che si decide di scalare spesso sono già state scalate da molti, mentre le nuove ascensioni prevedono inevitabilmente delle incognite e lunghi periodi di studio e preparazione.
Il mio incontro con R. Compagnoni, Emerito di Petrologia dell’Università di Torino, mi ha indicato invece la strada verso un approccio più schematico ma anche più sfaccettato della materia. Dall’orogenesi alle cave ed alle miniere, dalla ricerca sul campo, allo studio in laboratorio, tutto tende alla classificazione ed al riconoscimento del contenuto e delle sue proprietà. Le classificazioni delle rocce, come in biologia, sono inevitabilmente complesse, e richiedono conoscenze chimiche se si desidera approfondire ed essere più precisi, a meno che non ci si voglia accontentare dell’aspetto estetico di un’immagine, anche bello ma sempre effimero. Le rocce possono essere semplici, ossia costituite da un solo minerale (come le quarziti costituite solo da cristalli di quarzo) oppure composte da diversi minerali (come i graniti, costituiti da quarzo, feldspati e biotite), dove la composizione e la distribuzione dei diversi minerali all’interno della roccia consente di risalire agli ambienti ed alle condizioni della sua genesi. È negli strati profondi del sottosuolo che possiamo trovare condizioni, di temperatura e di pressione, così elevate da innescare reazioni tra i minerali stabili più in superficie con formazione di nuovi minerali, stabili nelle nuove condizioni ambientali: questo processo prende il nome di metamorfismo. Un diverso modo di formare una roccia è la cristallizzazione dei minerali da un fuso silicatico ad alta temperatura, come avviene nelle vulcaniti (lave) o nelle plutoniti, dove al procedere del raffreddamento gli elementi presenti nel magma si riorganizzano in un reticolo cristallino ordinato. Ancora un altro modo per la formazione di minerali, è la precipitazione di sali da fluidi, in seguito all’evaporazione dell’acqua e a piccole variazioni di temperatura, sufficienti ad aumentare la concentrazione (saturazione) degli elementi: questo processo, ad esempio, ha generato gli imponenti depositi di sale (salgemma) e gesso del Messiniano (ca. 5 Ma fa), che sono distribuiti in gran parte del Mediterraneo, a testimonianza dell’importante evento di evaporazione, conseguente alla chiusura dello stretto di Gibilterra, che ha precluso l’arrivo di acqua dell’Oceano Atlantico. Ma è interessante ricordare che anche gran parte dei prodotti artificiali prodotti dall’uomo, come gli acciai e le altre leghe, sono costituiti da piccoli cristalli, visibili solo al microscopio. Quello che oggi possiamo trovare in cima ad una montagna dell’Alto Adige, poteva essere, una quarantina di milioni di anni fa, a circa 15 kilometri sotto la superficie terrestre. Certo la presenza di giacimenti in una regione, come il ferro nella valle di Cogne (AO), il talco nell’alta Val Chisone (TO) oppure il marmo nei pressi di Carrara), può determinare la fortuna di una comunità così come piccole schegge di selce hanno modificato la dieta dei nostri antenati. Dunque la nostra attenzione può essere catturata dalla maestosità e dalla durezza del granito del Monte Bianco oppure dalla tenerezza del marmo bianco, ammirabile sia in una cava che in un museo, sotto forma di opera d’arte compiuta. L’Opificio delle Pietre Dure di Firenze (noto anche con la sigla OPD) è un Istituto autonomo del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo la cui attività è mirata al restauro ed alla conservazione di opere d’arte. Nato per volere di Ferdinando I de’ Medici nel 1588 per la manifattura e la lavorazione di arredi in pietre dure si è poi trasformato nel tempo, per quello che riguarda la sua mission, dopo l’alluvione del 1966 e la fusione, nel 1975, con il Laboratorio restauri della Soprintendenza. Vi è anche un Museo annesso all’OPD, completamente ristrutturato nel 1995, che merita un’attenzione particolare. I due settori di Diagnostica scientifica e quello della Climatologia e conservazione Preventiva dell’OPD sono da molti anni un punto di riferimento in Italia ed in Europa per scienziati, restauratori, storici dell’arte, architetti ed archeologi. L’approccio al laboratorio geotecnico è stato estremamente affascinante: scalpelli a bilanciere per la frantumazione grossolana di rocce, troncatrici per tagli di precisione, mulini a dischi per la macinazione di granulati, tavole a scosse a secco o ad acqua, centrifughe, e separatori si avvalgono ora di proprietà magnetiche ora di proprietà fisico-meccaniche (densità, diversa forma fisica) per trasformare il campione nella forma voluta o per determinare coefficienti e limiti; ora alla permeabilità, ora alla plasticità, oppure il contenuto di sostanze organiche. La determinazione degli elementi radioattivi di una roccia in genere presenti nei minerali in tracce (cioè in parti per milione, ppm) consente di datare la formazione di una roccia, anche dove non sono presenti i fossili. Lo studio delle rocce viene effettuato al microscopio in sezione sottile: il campione da esaminare viene tagliato in lastrine sottili pochi mmm, incollato su un vetrino (simile a quello dei preparati biologici) e ulteriormente assottigliato per abrasione con abrasivi e quindi lucidato con costose polveri di diamante a grana finissima. In questo modo la maggior parte dei minerali delle rocce diviene trasparente e può essere studiata in luce trasmessa mediante un microscopio in luce polarizzata, che consente di riconoscere sia la natura dei minerali presenti che la struttura della roccia. I colori di interferenza, che assumono molti minerali osservati in luce polarizzata, non solo consentono di determinare il minerali, ma spesso costituiscono immagini cromatiche molto affascinanti. In fondo i grandi telescopi che ci sono sulle nostre montagne studiano anche loro la luce che ci arriva dalle stelle, permettendoci di scoprire ciò che le costituisce e la loro datazione.
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