È un sogno allucinato l’Affabulazione pasoliniana che Marco Lorenzi ha messo in scena con la volontà dichiarata di farne un thriller crudele. Un sogno che rovescia, come in uno specchio, quello in cui si rifugia la protagonista di Calderón – da lì era partito, con la regia di Fabio Condemi, il progetto di Ert di presentare nel corso della stagione tutti i testi teatrali dell’autore friulano. Là, sulla scorta de La vita è sogno; qui con lo slittamento nel mito tragico di Edipo, rovesciato nello scontro generazionale di un futuro anteriore che arma la mano dei padri contro i figli. Ecco infatti farsi avanti l’ombra di Sofocle celata nel corpo femminile di Barbara Mazzi, a preannunciare «le vicende un po’ indecenti» di una tragedia che finisce ma non comincia. L’orizzonte è sempre quello della borghesia come realtà da cui è impossibile uscire.

IN EFFETTI lo spettacolo di Lorenzi comincia dall’immagine finale, gli anfratti notturni di una stazione ferroviaria, dove nel buio si scorge un uomo sdraiato per terra. Da lì si slitta nel vuoto dello spazio stretto fra due velatini che chiudono la fuga prospettica verso il fondo. Dove campeggia la poltrona del protagonista. Il Padre. Si presenta con un urlo (e molto urlerà ancora Danilo Nigrelli, accanto a Irene Ivaldi e i due giovani Roberta Lanave e Riccardo Niceforo). Cosa c’è da gridare? Lo dice anche la Madre, elegante e concreta nel suo abito chiaro. Ha fatto un sogno che non ricorda, c’era di mezzo il Figlio. E ora se lo ritrova davanti, con quella biondezza che non riconosce, mentre balla insieme alla Ragazza al ritmo di Oye como va. Lei loliteggia un po’, gioca la carta della seduzione.Di «Affabulazione», senza riandare a tempi più lontani, restano nella memoria le immagini luminose dello spettacolo realizzato da Luca Ronconi esattamente trent’anni fa a Torino, con Umberto Orsini, Paola Quattrini e Marisa Fabbri.

DI «AFFABULAZIONE», senza riandare a tempi più lontani, restano nella memoria le immagini luminose dello spettacolo realizzato da Luca Ronconi esattamente trent’anni fa a Torino, con Umberto Orsini, Paola Quattrini e Marisa Fabbri. Qui la drammaturgia di Laura Olivi, qualcosa tagliando, ha suddiviso gli otto episodi del testo in una successione di brevi scene intervallate da un attimo di buio. Con un effetto di accelerazione della vicenda che forse è un falso movimento lungo la china di un finale già scritto. Lo capisce anche lo spettatore che non ha letto Pasolini, davanti al coltello che passa di mano e dovrà infine trovare una giustificazione. Disturbanti immagini oniriche si materializzano nei corpi dalla testa di pecore, a un certo punto li vedremo seduti alla tavola imbandita davanti a un agnello infilzato sullo spiedo.
E siamo all’epilogo, si torna in quella stazione ferroviaria dove l’uomo racconta la sua storia di dannazione ed espiazione. O forse no, perché un dubbio sulla natura di quel sogno Lorenzi ce lo vuole lasciare. Come Zhuang-zi che sognò di essere una farfalla o forse era la farfalla che sognava di essere Zhuang-zi.