L’adolescenza nera della guerriera Anna
Televisione Dal romanzo di Ammaniti, la serie in sei episodi di Sky fra scenari apocalittici e virus mortali
Televisione Dal romanzo di Ammaniti, la serie in sei episodi di Sky fra scenari apocalittici e virus mortali
Un’iscrizione prima di ogni episodio di Anna – disponibile su Sky e altre piattaforme – recita che la serie è stata girata mesi prima dell’apparizione del covid-19, nonostante certe situazioni, persino alcune battute di dialogo del tipo «è solo un’influenza» sembrino il calco, piuttosto che la predizione, di quello che poi in parte è accaduto. Il che ci dice una volta di più della forza ermeneutica, preconizzante della letteratura, del cinema, delle vicende viste attraverso una lente estetica; insomma delle storie sorte nel non-senso della storia; ci racconta della loro concreta, dimensionale per quanto evenemenziale verità, quello spazio-tempo che Bachtin chiamava cronòtopo, inscritto poi nelle narrazioni di Lyotard, specchi, magari specchi d’acqua increspata, o torbida, in cui scorgere l’essenza del tempo.
IN QUESTO CASO il racconto è quello di Niccolò Ammanniti, forse attualmente il maggior inventore di storie in Italia, cioè in quanto a stratificazione di trame, caratterizzazione dei luoghi, plasticazione e azione dei personaggi: cioè tutto un epos in qualche modo postmoderno cui unico difetto sembra essere lo stile della scrittura chiamata a incarnarlo, che è, come dire, neutro, quasi anodino. Non un sussulto di sintassi e significanti (o davvero pochi), di lemmi, di suoni concatenati a conferire al testo un plusvalore di senso: la scrittura di Ammanniti è tutto significato, significato primo, tutta azione, trama apodittica, condotti per lo più da uno stile semplice, per usare una definizione di Enrico Testa. Ma uno stile semplice (cui corifeo è Manzoni) ora ridotto a forma anonima: questo mi pare un difetto di gran parte della narrativa italiana contemporanea. Fatto sta che la storia di Ammanniti, la modalità che essa ha di figurarsi, pre-figurarsi istantaneamente attraverso la scrittura, trova nel cinema, e specialmente nella serie, una traduzione ideale, quel farsi subito sagoma della tensione inventiva, quel suo divenire azione di metabolismi ben sagomati, cesellati, semoventi sullo schermo.
In questo modo Anna è esattamente monca: è tutta nel suo essere mancante (di un braccio); guerriera adolescente che come in un videogioco deve districarsi nel labirinto che è divenuta la Sicilia, terra desolata percorsa da orde di morti viventi, destinati a morire perché marchiati dalla Rossa, il virus che colpisce solo gli adulti. Lo scenario è quello post-apocalittico assimilabile all’archetipo di The Road di Hillcoat (e ovviamente di McCarthy) in cui vige il caos, l’anarchia, lo sfacelo entro cui cercare i mezzi di sussistenza. In questo senso è esemplare e metaforico l’arrocco dei due gemelli, figli di un cupido droghiere, che gestiscono, barricati dietro saracinesche, le ultime merci rimaste, evidenziando una volta di più l’idea che Ammanniti ha dell’infanzia, tempo dell’innocenza sì, della spontaneità, ma anche, come risvolto fisiologico, stadio ammantato di oscurità, di tetraggine, anche di violenza. C’è in quest’ottica, in questo sguardo sull’infanzia e sull’adolescenza, che filtra una grande messe di inquietudini, di orrore sotteso, di cruenta per quanto incantata visione del mondo, una certa vicinanza a certo cinema contemporaneo di decostruzione del favoloso: ad esempio Spike Jonze, Gondry (attraverso Boris Vian) ma anche i Dan Kwan e Daniel Scheinert di Swiss Army Man, tra i film più detestabili degli ultimi anni.
MA AMMANNITI se sembra condividere alcune istanze chiaroscurali dell’infanzia concepita da questi autori, per fortuna ne schiva alcune forzature oniriche, surrealistiche (che stereotipizzano le cose, le riducono ad aggeggi svitati, inutilizzabili), concentrandosi sulla sostanza delle cose, sulla loro plasticità asserragliata negli scorci, come era accaduto in Io non ho paura in cui il punto di partenza costituito dallo sguardo di Ammanniti aveva fatto così bene a Salvatores. In Anna emergono complessioni, plastiche, scorci devastati, toccati da una decomposizione (fino alla scarnificazione di teschi e ossa, poi però adorni di pietre colorate) che è la cronaca della vita delle cose, e che risuona della voce di Cristina Donà così come di Holes dei Mercury Rev, come aperture, dopo l’incubazione della malattia, le purulenze; liquidi, limpidi spiragli dentro il carcame del panorama.
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