L’acrobatica ricerca di sé nelle strade della Sanità
Scaffale In "Vico esclamativo" Chiara Nocchetti dà voce ai giovani del popolare rione partenopeo dove opera la comunità San Gennaro fondata da don Antonio Loffredo
Scaffale In "Vico esclamativo" Chiara Nocchetti dà voce ai giovani del popolare rione partenopeo dove opera la comunità San Gennaro fondata da don Antonio Loffredo
Un quartiere antichissimo finito ai margini della vita cittadina: una periferia nel suo stesso centro storico, abbandonata da qualsiasi progetto di sviluppo. Gli artigiani lentamente spariscono, l’isolamento diventa la premessa per tramutarlo in un’enorme piazza di spaccio. L’altra città, «la Napoli bene», si autoassolve condannando gli abitanti della Sanità: loro le responsabilità, le colpe e le pene. Il meccanismo però si spezza quando don Antonio Loffredo raduna i ragazzi del rione e mette su la fondazione di comunità San Gennaro, da lì germoglia la cooperativa che prende in gestione le catacombe e poi nasce l’orchestra Sanitansemble, le case famiglia, il Nuovo Teatro Sanità, i bed and breakfast, la casa editrice, l’etichetta musicale.
«ESSERE NAPOLETANI è cavalcare il limite, rendersi avvezzi alle acrobazie e inventare un cambiamento che renda possibile la realtà», spiega don Loffredo nella postfazione del libro Vico esclamativo (Edizioni San Gennaro, pp. 118, euro 12) in cui Chiara Nocchetti ha raccolto le bio dei ragazzi protagonisti di uno stravolgimento: trovare sé stessi scoprendo la Sanità. Nelle pagine ci sono le immagini dei loro volti e le loro vite senza la patina glamour della fotografia da fiction alla moda.
Ogni capitolo toglie il fiato: «Io non sono qua per chiedere scusa. Io non ho niente da spiegare e non ho manco voglia di capirvi: io sto qua perché là dentro non ci torno. Uscivo da scuola e rallentavo i passi. A casa non ci torno, magari sparisco e se cammino piano, pianissimo, può essere che nel tragitto tra scuola e casa divento grande e posso andare via da quella che non è casa mia», racconta Salvatore. E Raffaele B: «Mio padre non c’è, mia madre non lavora, mia sorella è piccola. Qualcuno ci deve pensare. Comincio a 12 anni, lavoro al bar, in pizzeria, in un negozio, a testa bassa, lentamente, con un cognome che mi pesa come un macigno: lo sanno tutti chi è mio padre, lo sanno tutti a chi appartengo. Il sangue, dalle mie parti, non si lava».
Pure Lello la scuola non l’ha finita: «Sapevo lavorare la fodera delle scarpe, agile e veloce, da quando avevo 10 anni. Non mi piaceva guardare gli altri negli occhi troppo a lungo. Ora invece incastro lo sguardo con quello degli altri e conto lentamente. Non lo abbasso più quello sguardo, ora ci riesco». Antonio F i genitori hanno provato a mandarlo al liceo lontano dal rione: «Se non so come fare a essere me stesso, tanto vale provare a vedere come si fa a essere loro, a mimetizzarsi, a scomparire». Miryam si sentiva soffocare: «Sono nata sotto al ponte della Sanità, messo lì a dividere chi sta sopra da chi sta sotto: un ponte che non collega ma che allontana, che separa la città che soffre da quella che cresce». Calimero abitava in una strada senza padri, dove si vive tutti insieme perché non si appartiene a nessuno: «Mi servono i soldi e osservo la mia tribù: so come fare, serve poco tempo e appena poco coraggio; basta non pensare alle conseguenze, basta non pensare a niente. Non conosco altro, nessuno mi ferma, nessuno si oppone e finisco a Nisida (il carcere minorile locale, ndr) in una nuova tribù».
SE GLI INCIPIT SONO DURISSIMI i finali raccontano una comunità che vive, si forma, costruisce e rivendica i propri diritti. Li potete incontrare tra le pagine del libro o nel loro quartiere, la Sanità.
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