Un fiore di campo sopra una tomba dimenticata, la mostra che la parigina Fondation Custodia ha dedicato di recente a Léon Bonvin, di cui resta un catalogo pregevolissimo, che è anche l’inventario ragionato dell’opera finora conosciuta, 116 numeri più 28, lavori non localizzati: Léon Bonvin Une poésie du réel, a cura di Maud Guichané e Gabriel P. Weisberg (pp. 304, euro 35,00).

Lode alla ricerca quando è in grado di coltivare attentamente figure di grande qualità ma fragili, che non possono difendersi con la forza di una presenza storica irrefutabile. Il merito, qui, va soprattutto al più attrezzato studioso del realismo dell’Ottocento francese collaterale a Courbet, Gabriel P. Weisberg, che alla fine del 1980 riesumò, con una mostra al Cleveland Museum of Art, la singolare e bruciante vicenda di Léon Bonvin, studiata nel quadro dei suoi interessi per il fratellastro, di lui maggiore, François. A questi, pittore fra i più rappresentativi della schiatta realista, ben altrimenti ‘posizionato’ e tuttavia, all’epoca, anch’egli in dimenticanza, aveva appena dedicato, 1979, la prima monografia dopo quella storica, 1927, di Étienne Moreau-Nélaton. I due Bonvin figuravano anche, diversamente scalati, nella contemporanea esposizione, curata dallo stesso Weisberg sempre a Cleveland, The Realist Tradition, Francia 1830-1900, vero discrimine degli studi.

Léon Bonvin, dagherrotipo ca. 1855, Parigi, Fondation Custodia

Un giorno sui primi di febbraio del 1866, nei pressi della foresta di Meudon, fu trovato, sotto un albero, il corpo di un giovane uomo. Crollato giù insieme al ramo: Léon Bonvin si era appeso il 30 gennaio, a 31 anni. Sembra che qualche giorno prima un mercante avesse rifiutato di acquistargli alcuni fogli. «Tra mio fratello e me c’erano le riserve consuete fra nati in differenti letti: è per questo che venni a sapere del disastro quando era divenuto irreparabile», scriverà François tanti anni dopo.

Léon aveva avuto poco tempo, un decennio, per manifestare, fra disegni e acquarelli, la maestria del suo occhio: sottigliezza e, nondimeno, come vide uno dei suoi primi critici, Ernest Chesneau, «une naïveté bien personelle». Non era artista di professione: dipingeva nel tempo rubato all’attività di aubergiste, la notte o alle prime ore del giorno. Chi studia la sua opera meno che mai può disgiungerla dall’ambiente sociale in cui essa maturò, la locanda di Vaugirard, nell’immediato ovest di Parigi. Era stata avviata dal padre François Eustache, figura pittoresca e tirannica, balzachiana, di ex-soldato napoleonico, ancora guarnito dei celebri orecchini come nelle litografie di Charlet. Con le sue piacevoli pergole, la trattoria diventò in breve tempo un frequentato luogo di ritrovo, a base di spezzatino di coniglio (la specialità), per i rigattieri e i lavoratori delle cave d’intorno così come per una serie di artisti, dall’acquafortista Bracquemond ai pittori Yon e Villain. Questo luogo, che insieme alla natura limitrofa doveva offrire alla fantasia di Léon il campionario ben magro dei suoi spunti creativi, divenne per lui un… cappio al collo, distraendolo strutturalmente dalla sua vocazione. Del resto, sposato e padre di tre bambini, gli era impossibile la bohéme, una forma di vita piuttosto consueta fra i pittori refusés frequentati dal fratello.

Léon Bonvin, “Un pichet et un verre”, Parigi, d’Orsay

Vino in bottiglia, un pezzo di Mozart

Ci sono tutti gli ingredienti per una piccola, straziante storia romantica, che prende colore specifico sotto la penna di chi lo conobbe. Lo scrittore e attivista politico Jules Vàlles: «Aveva l’allure plebea ma la fronte larga, l’occhio dolce»; «la sua bravura era modesta, oscura»; «dipingeva un paesaggio o interpretava un pezzo di Mozart dopo aver forato la botte, messo il vino in bottiglia» – Léon era anche un dotato autodidatta musicale, deliziava gli avventori con il suo harmonium.
Philippe Burty fu il primo a dare vera risonanza all’opera di Bonvin junior: l’autorità e finezza del suo giudizio critico si espresse, vent’anni dopo la morte dell’artista, nella rivista americana «Harper’s Magazine» (1885) e ne «La Nouvelle Revue» (1886). Da due lettere che François spedì a Burty in quell’epoca, risulta chiaro il suo ruolo preponderante sugli inizi del cadetto (minore di diciassette anni). Gli consigliava il d’après nature e anche, più in specifico, l’uso dei maestri olandesi – che erano modello tassativo per la scuola realista – del trait à la plume prima dell’intervento con il colore, nel caso di Léon steso ad acqua. Questi insegnamenti, denunciava François, erano stati minati da pessime influenze esterne, subite forse nella locanda stessa, presto divenuta luogo di scambi più o meno informali con gli altri artisti: infiltrazioni accademiche, si può credere, i cui eventuali effetti non è possibile determinare.

In ogni caso, sempre dalle parole del fratello, sappiamo che la formazione di Léon non era stata più che tanto di fortuna, avendo egli seguito, seppure in forma ridotta, o serale, i corsi dell’École Bachelier, rue de l’École de Médecine, negli anni in cui vi insegnava Horace Lecoq de Boisbaudran, faro della didattica, maestro dello stesso François, e di due pittori a lui intimi, Whistler e Fantin-Latour, con i quali il ragazzo Léon potrebbe essere venuto a contatto. Boisbaudran orientava verso il dessin de mémoir, una mnemotecnica del vedere di cui Léon fece evidentemente tesoro se i suoi meravigliosi acquarelli ‘di campagna’, ispirati da soggetti cèrniti in passeggiate solitarie nel breve raggio intorno alla locanda, e fissati con schizzi, conservano la freschezza del colpo d’occhio quantunque eseguiti in studio, con la pazienza del miniatore.

Gli esordi di Léon furono tuttavia all’insegna della matita. Resta una manciata di disegni, alcuni di qualità straordinaria per la selezione morbida e vellutata dei valori luminosi, ottenuta con la pierre noir. Sembra Seurat, non solo nell’uso della tecnica, anche nella capacità di trasformare il motif, sempre tratto dal misero universo della, o intorno alla, trattoria di Vaugirard, in un piccolo monumento ottico. Chien assis, 1855: minuscolo ‘lontano’… un preparatorio della Grande Jatte? Il ritratto del vecchio padre, 1856, ferma solennemente in un assopimento – berretto di lana, testa reclinata – le fattezze, rendendo giustizia a una figura per Léon difficile e ingombrante, quasi essa stessa l’impresa familiare che lo teneva avvinto a una vita non sua.
Dal bianco e nero austero ma lucente della prima produzione, Bonvin passa al colore verso la fine degli anni cinquanta: il supporto è l’acquarello, più adattabile del ‘complicato’ olio a un sistema di vita costretto da ben altre urgenze. Nel ricco quadro della tradizione realista francese entro cui si inscrive la sua opera questa scelta è piuttosto rara, e implica una diversa determinazione formale, che nasce dal combinarsi di una tecnica ‘veloce’ con un gusto certosino, quasi persiano, del dettagliare. Il più della sua produzione è rappresentato dalla natura morta. Qui Léon dà il suo meglio nei rarissimi casi in cui isola l’oggetto – uova, brocca, libro – in una cristallina perspiquità, ma quando egli troppo si appoggia ai modelli classici verso cui lo aveva orientato il fratello François – gli olandesi del Seicento e, soprattutto, Chardin – rischia l’effetto di un copista magico, oltremodo zelante. Pur in modo spostato, partecipa di una difficoltà propria ai comprimari di Courbet – lo stesso Bonvin senior, Théodule Ribot (fresco di una mostra rivelatoria a Tolosa, Marsiglia, Caen, 2021-’22), Antoine Vollon… – che, privi della potenza stilistica e della varietà d’intendimento del capofila, si lasciano risucchiare a tratti nel pastiche museale.

Léon Bonvin, “Aubépines devant un paysage nocturne”, 1864, Baltimora, The Walters Art Museum

Le escursioni, i fiori di campo

Léon Bonvin sprigiona se stesso non tanto nel troppo ipotecato ‘angolo di cucina’ alla Chardin quanto nella composizione di fiori, genere più ‘disponibile’, che peraltro l’Ottocento francese, con Delacroix, era riuscito a liberare pittoricamente dal suo sofisticato apparato di codici, anche morali, di radice olandese. Lo attirano i fiori senza pretese, di campo, che coglie nelle escursioni per poi accomodarli in vasi, bicchieri, caraffe, e disporli su fondi neutri. Achillee ed eriche selvagge, pervinche, soffioni, agrifogli, ortiche bianche… prendono vita nottetempo sotto l’occhio innamorato di Bonvin: una scena in anticipo sulle analoghe sedute floreali della ‘sguattera mistica’ Séraphine de Senlis. È una forma di realismo borderline, leggermente drogato da un percezione ulteriore, che ha del femminile. D’acchito sembrano prove magistrali di un illustratore botanico, pian piano però le forme si gonfiano, o formicolano, per l’intridersi umido del colore all’interno del saldo scheletro grafico, base di avvio.

Ma ancora più originale, a cominciare dal 1863, è dove Bonvin coglie i suoi umili fiori in esterno, nel loro quadro naturale. L’occhio è a pelo d’erba, ‘bagnato’ dalla rugiada; in cespuglio, la cicoria selvaggia, il cardo, anche la rosa svettano sul primissimo piano mentre nel fondo il paesaggio, latteo, è punteggiato di minuscole presenze antropiche, appena disegnate: avvertono di una campagna liminare, quella di Vaugirard, che comincia a essere mangiata dall’espansione parigina, di cui il pittore ebbe a soffrire – l’antico villaggio della Senna fu annesso alla metropoli nel 1860. Come un bambino in esplorazione, appostato spia di lontano: nel volgere dei mesi, da sdraiato si mette seduto, alza un po’ lo sguardo, e il motivo vegetale non è più centro di interesse, diviene una specie di quinta per il rivelarsi della luce fenomenica, alba tramonto notte (una notte ‘sublime’, nero inchiostro e polvere di stelle). In queste prove davvero sorprende che il risultato sia stato ottenuto in atelier. Perdipiù, l’incredibile freschezza sentimentale è frutto di varie tecniche – acquarello, penna, grafite, inchiostro bruno, gouache, gomma arabica – diversamente combinate, una modalità complessa utilizzata da Bonvin a partire dai suoi primi approcci al colore e via via perfezionata fino al massimo di equilibrio nella produzione ultima.

Léon Bonvin, “Route dans la plaine de Vaugirard”, 1863, Baltimora, The Baltimore Museum of Art

Le epifanie nella campagna erosa dal progresso prevedono anche vedute più tradizionali della piana di Vaugirard, come le due, conservate a Baltimora, dove la solitudine di una piccola, dimessa presenza umana, stirpe contadina, echeggia nella vasta, nebbiosa apertura d’orizzonte, nel sentiero scrupolosamente delineato, nella perizia grafica che sottilizza sui rami degli alberi spogli; o quell’altra, proprietà Fondation Custodia, in cui appare più evidente, nel marrone pallido della strada schiacciato dall’enormità del cielo bianco, il graduale venir meno della quiete della natura, così amata dal sognatore Bonvin, sotto i colpi dell’urbanizzazione (sono gli anni delle grandi trasformazioni haussmanniane: le cave di Vaugirard servono i cantieri). Questi paesaggi hanno il loro controcanto nei due, tre interni di trattoria, carezze di luce dalle finestre, intimismo rustico nella tradizione della scuola realista, ma più amaro e malinconico.

«A vederlo, con il grembiule da cucina allacciato dietro la schiena, sopra il camice blu, l’aria dolce, timida, imbarazzata, si sarebbe detto il ragazzo bottaio del celebre dipinto di Chardin»: lo scrittore e artista Frédéric Henriet fu un habitué del cabaret di Vaugirard e nel suo referto critico del 1891 racconta come un giorno Léon Bonvin lo mise a parte della sua opera. Gli astanti lo spinsero a mostrarla, egli «arrossì un po’, sparì, e tornò con una cartella piena…». Cominciata «intorno alle vaste omelettes e alle fricassee di coniglio condite con una salsa nera di timo», come descrive una cronaca dell’epoca, la storia della ricezione dell’opera di Bonvin appare romanzesca quanto il suo oggetto.

Il capitolo più importante, americano Gilded Age, fa capo al magnate William T. Walters, la cui collezione fu il primo nucleo del Walters Art Museum di Baltimora, che oggi possiede cinquantasei acquarelli e un olio, l’unico conosciuto, dell’artista. Acquisti, tutti, realizzati tramite l’emissario parigino di Walters, il grande mercante George A. Lucas, che frequentò la locanda di Léon quando questi era ancora in vita – l’intera storia è riepilogata in catalogo da un saggio di Jo Briggs.

Scena madre da Drouot

Gli episodi, più o meno saporiti, degli amatori in trattoria lasciarono il campo, 24 maggio 1866, alla scena madre, l’asta di beneficenza che un importante gruppo di artisti organizzò da Drouot, donando opere per soccorrere la vedova e i tre figli piccoli dopo il suicidio di Léon. Accanto a François, fratello annientato, figuravano nomi di spicco dell’avanguardia parigina, fra cui Courbet, Monet, Boudin, Fantin, Whistler. Come si spiega questa massiccia presenza in favore di un artista dilettante e marginale, che non aveva mai esposto ai Salons? Non deve essere stata soltanto l’amicizia nei confronti di Bonvin senior, ma anche, più o meno, un sincero apprezzamento di qualità. In una lettera dell’agosto 1865 Whistler aveva definito «charmantes» gli acquarelli di Léon, dopo averne acquistato uno da Cadart.

L’asta fruttò oltre ottomila franchi, cifra onorevole; la casa di famiglia e la trattoria, vendute. Il saggio di Weisberg sulle sorti postume del lavoro di Léon Bonvin descrive le varie tappe di un culto collezionistico, limitato, discreto, ma profondo, testimoniato da rispettabili quotazioni di mercato, in genere più alte di quelle di François, e accompagnato a volte da partecipate incursioni critiche. Lungo le varie stagioni, la ‘fortuna’ del realismo francese ha inciso in modo diretto sull’apprezzamento pubblico dell’opera di Léon, che definire realista è abbastanza parziale. Il modernismo novecentesco voltò le spalle a quel movimento pittorico, soprattutto nelle espressioni medie dei comprimari, almeno fino agli anni settanta, quando una serie di acuti e amorevoli conoscitori cominciò a ritessere, fino alla recente mostra parigina della Fondation Custodia, la sua storia segreta. Storia in cui merita un posto la locanda di Vaugirard e il suo incantato e inquieto acquarellista, Léon Bonvin.