Cultura

L’accumulazione infinita e patologica

L’accumulazione infinita e patologica

TEMPI PRESENTI Un'anticipazione da «Ecologia-mondo e crisi del capitalismo» (ombre corte). Stiamo affrontando cinque secoli di naturalismo borghese, l’ideologia del progetto di civilizzazione. La dicotomia Uomo-Natura è il «software» che anima l’«hardware» delle armi, delle piantagioni e delle miniere che hanno reso possibili le lunghe ondate di ecocidio e genocidio

Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 aprile 2023

Questo non è un libro sulla Natura. È un libro sul capitalismo, sui rapporti umani di potere e ri/produzione, e su come entrambi si sviluppano nella rete della vita. Esso parla di come l’ineguaglianza senza precedenti tra gli esseri umani nel capitalismo sia resa possibile ed espressa attraverso un dominio senza precedenti – non dell’Uomo sulla Natura, ma della spinta del capitalismo a trasformare le reti della vita in opportunità di profitto.
I testi che compongono questo libro parlano del carattere fondamentale del capitalismo, che non è né un sistema sociale né una logica economica – sebbene contenga questi momenti – ma è un modo di organizzare la vita planetaria. Questo è il nucleo della proposizione secondo cui il capitalismo è un’ecologia-mondo, che unisce dialetticamente l’accumulazione infinita di capitale, la ricerca patologica di potere e la coproduzione prometeica della vita planetaria.

DA QUESTO FILO CONDUTTORE, come direbbe Marx, possiamo capire la crisi climatica odierna non come antropogenica («fatta dall’uomo»), ma come capitalogenica («fatta dal capitale»). Da questa critica, possiamo iniziare a discernere le reti della vita planetaria e la potenziale solidarietà tra tutti i «lavoratori del mondo», retribuiti e no, umani ed extra-umani. Solo allora possiamo iniziare a unire le «risorse della speranza» intellettuali necessarie per lanciare una sfida internazionalista alla dittatura biosferica della borghesia mondiale.
Delle illusioni della modernità, nessuna è così potente – e nessuna è più fondamentale per le strutture di credenza della borghesia imperialista – come quella di Uomo e Natura. Di nuovo in maiuscolo: Uomo e Natura. So che questo potrebbe risultare noioso per alcuni, ma permettetemi di sottolineare l’enormità del progetto: stiamo affrontando cinque secoli di naturalismo borghese, l’ideologia del progetto di civilizzazione che ci dice come il capitalismo (la Cristianità, la Civiltà, lo Sviluppo) sia il modo di produzione più razionale e scientifico mai creato. Quando Ferguson scrive dello Sviluppismo del dopoguerra come di una «macchina antipolitica» – sottolineando la riduzione di complesse questioni politiche a procedure tecniche e manageriali – egli potrebbe benissimo parlare dei progetti imperiali dalle origini del capitalismo (e potrebbe altrettanto bene parlare dell’Antropocene e della sua politica di gestione planetaria). Certo, gli elementi favoriti di questi Progetti civilizzatori sono cambiati, diventando più secolari e meno esplicitamente eurocentrici, ma l’essenza è rimasta la stessa.

OGNI VOLTA che nuovi imperi hanno «scoperto» nuove terre con nuovi popoli che non avevano abbastanza potere militare, il primo atto è sempre stato lo stesso: dichiarare selvaggi i loro abitanti. Non-cristiani, non-civilizzati, non-sviluppati, le nuove popolazioni erano parte della Natura; non Umani, o non del tutto Umani. O non ancora Umani. Selvaggio significava indisciplinato e pigro – una mossa ideologica che giustificava naturalmente il lavoro come la strada per la Salvezza. Più volte, la buona scienza ha affermato l’ineguaglianza «naturale» tra ricchi e poveri, imperialisti e colonizzati, bianchi e neri, uomo e donna.

DICHIARARE QUALCOSA come il risultato della legge naturale – inevitabilmente attraverso la dicotomia ideologica di Uomo e Natura, depurata dei loro antagonismi di classe– è stata l’essenza del naturalismo borghese. Lungi dall’essere un retaggio del passato, esso è ancora con noi. Quando Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati uniti, dice che «le leggi dell’economia funzionano come le leggi dell’ingegneria», ci sta dando un assaggio del potere basato sul naturalismo borghese.
La nostra sfida, quindi, non è semplicemente ripensare, ma de-pensare. Dobbiamo disimparare il concetto borghese secondo cui Uomo e Natura sono descrizioni prive di valore; dobbiamo imparare a vedere che esse sono centrali per il sistema ideologico del capitalismo. La dicotomia Uomo-Natura è il «software» che anima l’«hardware» delle armi, delle piantagioni e delle miniere che hanno reso possibili le lunghe ondate di ecocidio e genocidio del capitalismo e che oggi accelerano la corsa verso l’inferno planetario. Perché questo software funzioni, esso deve convincere i quadri della borghesia – gli intellettuali, gli amministratori, gli scienziati e gli ingegneri, gli ufficiali militari – che il capitalismo è giusto, necessario e razionale. Questo è ciò che Weber intendeva quando si riferiva al «dominio razionale del mondo» da parte dell’Europa.

LA NATURA È STATA tra le prime invenzioni di quell’impulso verso il «dominio razionale». Questa affermazione non è affatto controversa nella storia delle idee. Tuttavia, gli ambientalisti e persino molti radicali sono spesso scioccati da questa affermazione.
La Natura non è «semplicemente lì». Essa è un’invenzione del tutto moderna. Nessuna civiltà prima del capitalismo immaginava un mondo diviso in due domini: l’Uomo e la Natura. Questa alienazione fu fondamentale per il primo grande movimento di accumulazione originaria a livello mondiale. Proprio come il contadino veniva espropriato dell’accesso diretto ai mezzi di produzione, la stragrande maggioranza delle popolazioni – africani, americani indigeni, slavi, celti e praticamente tutte le donne – veniva espropriata della propria umanità. Questi esseri umani, portatori di forza-lavoro e delle loro condizioni di lavoro riproduttivo, venivano assegnati alla Natura, in modo che le loro vite e il loro lavoro potessero essere svalutati. Il carattere selvaggio, selvatico o altrimenti «mostruoso» di questi esseri umani giustificava, anzi richiedeva, progetti di civilizzazione con molti nomi: cristianizzazione, civilizzazione, sviluppo. Questi progetti promettevano la salvezza, ma solo se i selvaggi (i non cristiani, i non civilizzati, i non sviluppati) si arrendevano ai civilizzatori e giuravano il loro impegno a diventare civilizzati attraverso il lavoro nelle sue forme più brutali e letali. Poiché la Natura riguarda il profitto e il lavoro, essa deve essere gestita. Questa è stata – e rimane – la priorità strategica dei civilizzatori, dei possessori di potere, capitale e razionalità sufficienti a garantire l’accumulazione infinita di capitale.

MARX CI RICORDA che il capitalismo produce zone di sacrificio: «popolazioni usa e getta» e «materiale umano usa e getta». Queste non sono «esternalità» come nel linguaggio dell’economia neoclassica, ma piuttosto sono «una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico». Queste popolazioni usa e getta sono sempre state assegnate alla Natura; le loro lotte di liberazione hanno sempre insistito sulla loro inclusione all’interno della Civiltà, oggi: «la società civile».
Ma per ogni «società civile» nel capitalismo deve esserci una «società incivile»: la zona Selvaggia è subordinata ai margini affilati della tossificazione, della miseria e dello spreco attraverso una violenza incessante e senza precedenti. Ogni momento di «spreco» nel capitalismo storico dipende da un movimento più grande di «distruzione».

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SCHEDA. Da domani in libreria

Anticipiamo qui la prefazione di Moore, per la nuova edizione del volume «Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato» di Jason W. Moore, edito da ombre corte (introduzione di Gennaro Avallone, pp. 205, euro 18), in uscita domani.

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