Economia

L’acciaio svenduto ai colossi indiani

L’acciaio svenduto ai colossi indianiL'Ilva di Taranto

Industria A perderci saranno i lavoratori: migliaia di posti a rischio. Ma il governo vede rosa. Per l’Ilva si fa avanti Arcelor Mittal. Per la Lucchini c’è Jindal, che offre pochissimi soldi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 15 agosto 2014

Le auto e gli autobus ex Fiat ai cinesi, l’acciaio (s)venduto agli indiani. Se Termini Imerese e Irisbus – la prima fabbrica italiana chiusa da Marchionne, ora con la prospettiva King Long sotto il “finto” marchio Industria Italiana Autobus – potrebbero presto parlare mandarino, i due più grandi poli siderurgici stanno per diventare indiani. Piombino e la Lucchini a Jindal, Taranto e l’Ilva molto probabilmente a Arcelor Mittal. Il governo si rivende gli interventi come positivi mettendoli perfino in relazione con la vicenda marò, ma a fare affari sono soprattutto i giganti indiani: comprano a prezzi stracciati concorrenti importanti entrando di forza nel mercato europeo. A perderci, come al solito, i lavoratori: il futuro parte con il forte rischio che migliaia di loro perderanno il posto.

Per quanto riguarda Ilva e Taranto ieri è arrivata la lettera di intenti del colosso Arcelor Mittal. Il commissario Piero Gnudi ha risposto chiedendo un piano industriale, mentre non si esclude che dell’operazione possano far parte anche i gruppi italiani Marcegaglia e Arvedi. Ma le prospettive per Taranto sono ancora nebulose.

Portati in ritardo a casa i soldi della quattordicesima, i prossimi mesi potrebbero rivelarsi un calvario per gli 11 mila dipendenti diretti. Gnudi ha dovuto infatti ammettere che nonostante i favori alle banche – la prededucibilità, la norma che tutela i crediti elargiti anche in caso di fallimento – il pool di istituti italiani a cui è stato richiesto il prestito ponte necessario per non fallire elargiranno solo 200 dei 650 milioni richiesti. Una cifra bassissima. Che non permetterà di arrivare a fine anno nemmeno con i pagamenti degli stipendi. E che rende ancora più necessaria la vendita – in tutto o in parte – a Arcelor Mittal. Naturalmente a prezzi ancora più stracciati.

Il valore indicato per la cittadella tarantina è di circa un miliardo. Ma c’è chi è pronto a scommettere che la cifra finale sarà molto più bassa. Anche perché i veri interrogativi riguardano i circa 4 miliardi necessari al risanamento ambientale e chi dovrà sborsarli. «Noi pensiamo che Gnudi stia sbagliando a vendere a Arcelor Mittal – attacca Rosario Rappa, segretario nazionale Fiom Cgil -. Anche perché pone la condizione di non accollarsi i debiti e di creare una bad company in stile Alitalia. Con i processi in corso contro i Riva e per il disastro ambientale crediamo che sia più logico un intervento temporaneo dello Stato che nazionalizzi l’acciaieria e faccia pagare i responsabili di questa situazione».

A Piombino le cose sono più delineate, ma non meno fosche. L’offerta del gruppo Jindal presentata al liquidatore non prevede l’acquisto dell’altoforno, che quindi sparisce definitivamente mettendo in fortissimo pericolo 1.400 posti su 2.200, senza contare l’indotto. Alle prese con i contratti di solidarietà rinnovati dopo la firma dell’accordo di programma, bene che vada solo 700-800 di loro – quelli che lavoravano nei laminatoi e nelle attività portuali – potrebbero tornare operativi da fine anno o inizio 2015. Anche perché le prospettive di forno elettrico e corex – tecnologia verde e moderna – nei piani di Jindal rimane solo una possibilità futura.

Nell’offerta presentata al commissario straordinario Piero Nardi nell’ambito del fin troppo lungo bando organizzato dal ministero dello Sviluppo, Jindal è stata l’unica a chiedere Piombino. Il tutto dunque senza concorrenza e venendo percepiti come i “salvatori” della patria, dopo la bufala Khaled, il fantomatico imprenditore pluripregiudicato giordano che – con il colpevole appoggio dei sindacati – era stato sponsorizzato in quanto unico pretendente anche dell’altoforno.

La cifra precisa offerta da Jindal non è mai stata resa nota. Ma se fino a ieri si ipotizzavano 3-400 milioni, ora si parla di cifre “simboliche”, addirittura ben al di sotto i 100 milioni. Un valore quasi inferiore a quello delle materie prime stoccate a Piombino e ancora inutilizzate. Per questo Nardi ha deciso di intavolare una trattativa privata con gli indiani, cercando di spuntare un prezzo almeno sostenibile per pagare i creditori, 120-130 milioni.

«Noi abbiamo sempre sostenuto l’ipotesi di una riconversione verde dell’area a caldo con il forno elettrico per far tornare al lavoro gran parte degli operai Lucchini – spiega Marco Bentivogli, segretario nazionale Fim Cisl – ma Jindal ha una paura matta della pubblicità negativa del caso Taranto. Dobbiamo farle cambiare idea. E costruire sulla rappresentanza sindacale un sistema per cui chi compra un’azienda sia tenuto alla responsabilità sociale e ambientale».

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