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L’aborto in Europa: Paese che vai, legge (e cultura) che trovi

L’aborto in Europa:  Paese che vai, legge (e cultura) che troviDublino, murales per Savita Halappanavar – LaPresse

Interruzione volontaria di gravidanza Il peso delle legislazioni e della loro interpretazione nell’accesso ai servizi per la donna, nei vari Stati Ue

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 maggio 2018

Con il referendum irlandese cade una delle leggi più punitive del mondo in materia di aborto. Per trovarne di simili bisogna volgere lo sguardo verso alcuni Paesi africani, latino e centroamericani, verso il Medioriente o nel sud est asiatico. Eppure anche in Europa si possono trovare sacche di oltranzismi pro-life e legislazioni che mantengono divieti molto severi, apparentemente più stringenti di quelli imposti dalla nostra legge 194. Anche se, come spiegano ginecologi ed esperti delle politiche riproduttive, a fare la differenza, tra i Paesi europei, non sono solo i testi di legge ma anche e soprattutto l’interpretazione comune che se ne fa di quelle norme e le condizioni sanitarie e sociali che ne favoriscono (o ne restringono) la loro applicabilità.

In effetti, in Europa l’interruzione di gravidanza rimane tuttora totalmente illegale, oltre che nello Stato del Vaticano, anche a San Marino, Andorra e a Malta, Paesi dove il divieto assoluto non prevede esplicitamente eccezioni ma il «crimine» è diventato privo di conseguenze penali se commesso in presenza di un grave ed imminente pericolo di vita per la donna incinta. Nel resto del continente, le legislazioni sono sostanzialmente molto simili, con alcune differenze dovute soprattutto al modo in cui i sistemi sanitari nazionali dei vari Paesi si sono recentemente adeguati ai moderni metodi abortivi farmacologici, favorendo in alcuni casi il benessere psicofisico della donna (come in Francia, dove non c’è l’obbligo di ricovero ospedaliero per la somministrazione della Ru486) o, al contrario, ostacolandolo (come avviene in Italia, dove si fa di tutto per contrastare il ricorso all’aborto farmacologico considerato troppo «on demand»).

Ci sono poi alcune eccezioni, come la cattolicissima Polonia, l’Irlanda del Nord, il Liechtenstein e il principato di Monaco, dove l’Ivg è consentita solo in caso di pericolo di vita per la madre, di grave malformazione del feto, di stupro o incesto (ma in questi ultimi casi l’aborto è consentito solo entro le 12 settimane, secondo il report appena pubblicato dalla Exelgyn sul sito abort-report.eu). Inaspettatamente le leggi impongono paletti più restrittivi di quanto ci si possa aspettare anche in Gran Bretagna e Islanda, dove in ogni caso la donna può ricorrere all’aborto anche per preservare la propria salute psicofisica, annoverando tra le cause di disagio pure la propria condizione socioeconomica. In Islanda però, per esempio, il limite per praticare l’Igv è di sole 16 settimane, ma ai medici non è consentita l’obiezione di coscienza. Nel Regno unito, invece, dove il limite è stato abbassato da 28 a 24 settimane quando l’Abortion Act del 1967 venne corretto, nel 1990, con lo Human Fertilization and Embryology Act, non basta che la donna autocertifichi la propria condizione di disagio, ma occorre il “visto” di due ginecologi (in Italia, uno solo).

Eppure, la Gran Bretagna per anni ha ospitato, e continua ad ospitare, donne europee che trovano difficoltà ad abortire in patria. Perché, come ha spiegato ieri la portavoce del British Pregnancy Advisory Service, Ann Furedi, durante un dibattito organizzato dall’Associazione Orlando nel Centro di documentazione delle donne di Bologna a cui hanno preso parte tra gli altri anche le ginecologhe Anna Pompili e Mirella Parachini, militante storica del Partito radicale, «l’accessibilità all’aborto legale non dipende solo dalla lettera della legge, ma anche e soprattutto dall’interpretazione che se ne fa e da altri fattori sociali». Come il numero di strutture dedicate (che in Gb abbondano), la disponibilità e la gratuità dei servizi, l’incidenza dell’obiezione di coscienza (assai poca Oltremanica, a differenza che in Italia) o la presenza di movimenti cattolici negli ospedali (onore che condividiamo solo con pochi Stati al mondo). In altre parole: la cultura di un Paese.

Motivi per i quali, sottolineano le due ginecologhe che da sempre si battono per una migliore applicazione della legge 194, che in questi giorni compie 40 anni, «anche se la legislazione britannica appare più restrittiva della nostra, in realtà l’accesso ai servizi per esercitare il diritto ad un aborto legale e sicuro è più garantito». E d’altra parte, è l’Italia ad essere tra gli osservati speciali del Consiglio d’Europa, l’organismo che sostiene la Convenzione europea dei diritti umani, che per due volte negli ultimi 5 anni ha rilevato le serie difficoltà di accesso ai servizi che incontrano le donne italiane.

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