L’abiezione a norma di legge
La storia pubblica La proposta di introdurre il reato di negazionismo vuol recidere la possibilità di affermare che non c’è stato lo sterminio degli ebrei. Ma, così facendo, trasforma gli epigoni del nazismo e del fascismo in paladini della libertà di espressione
La storia pubblica La proposta di introdurre il reato di negazionismo vuol recidere la possibilità di affermare che non c’è stato lo sterminio degli ebrei. Ma, così facendo, trasforma gli epigoni del nazismo e del fascismo in paladini della libertà di espressione
Se si osserva la discussione e, soprattutto, il processo decisionale che sta accompagnando l’ipotesi, in sé non inedita, di introdurre anche in Italia il reato di negazionismo, più che la fretta a costituire una cattiva consigliera parrebbe oggi essere una sorta di pessima coscienza che, nelle infinite e tortuose mene dell’agire parlamentare rischia, pur rinviando a intenzioni morali sottoscrivibili, di produrre un’eterogenesi dei fini. Detto in altre parole, potrebbe indirettamente legittimare quello che invece vorrebbe reprimere legalmente ed una volta per sempre. Entriamo nello specifico, poiché ci troviamo dinanzi ad un campo minato ed è quindi bene mettere dei solidi paletti: da un lato abbiamo a che fare non con delle opinioni, per quanto estreme, bensì con un fenomeno rivoltante e abietto. Ribadiamolo, quindi. Se si parla di negazionismo si rinvia alla squallida menzogna di chi, ammantandosi dietro il diritto alla «libertà di ricerca» e di «coscienza», nonché ad un ricorso all’«opinione» che diventa prima licenza di stravaganza e poi, in immediato riflesso, di insulto, uccide la memoria delle vittime dei genocidi, dichiarano che i secondi non sono mai accaduti e che le prime, quindi, non possono essere mai esistite.
Assassinio della memoria
Al centro di questo filone, che con la storiografia non ha nulla da condividere, vi è lo sterminio delle comunità ebraiche per mano nazista e fascista. Non di meno, la sua eco pubblica a distanza di molti decenni. Ma il campo di estensione, a ben guardare, è assai più corposo, chiamando in causa, di volta in volta, anche altre vicende e fatti. La qual cosa, detto da subito, imbroglia enormemente la matassa della discussione. Cosa va ritenuto delitto contro l’umanità, nonché genocidio, al di là della definizione giuridica, a tratti molto nominalistica, nelle nostre società? Chi è chiamato a sanzionare l’uno e l’altro rispetto al dibattito pubblico? Può essere un giudice a perseguire chi ne nega l’esistenza? Quando si è in presenza di una deliberata negazione e «quanto», nonché «come», ciò può costituire una lesione dell’altrui dignità e dei suoi fondamentali diritti?
Quesiti che si intrecciano, nella loro complessità, con il bisogno, sollevato da più parti, di reprimere quanto è vissuto come un assassinio della memoria, oltraggio deliberato e inaccettabile. Se quindi, da un lato, vi è questo groviglio di fatti e pulsioni, dall’altro si è dato il rinnovato impegno del legislatore nel volere sanzionare le condotte di negazione. In tal senso già si era mosso nel 2007, primo dei promotori l’allora ministro di Giustizia Clemente Mastella. Di fatto non se ne fece nulla, dopo però un fuoco di fila polemico nel quale si distinsero gli storici contemporaneisti che si espressero, per il tramite della Sissco, contro tale ipotesi. Allora, quattro erano i punti critici messi in rilievo dagli oppositori: la sostituzione, alla battaglia culturale, della minaccia del ricorso alla legge; la possibilità di offrire ai negazionisti l’improprio ruolo di difensori di una libertà di opinione, per quanto basata sulla propalazione di deliberate falsità; il sospetto, indotto in parte della pubblica opinione, che ciò che il legislatore intendesse sancire fosse una verità di Stato, come tale inconfutabile (e in ragione di ciò ancora di più dubitabile); l’accentuazione dell’idea che l’«unicità della Shoah», nonché la sua memoria, divenendo la metonimia del male assoluto, non potessero in alcun modo essere fatte oggetto di considerazioni critiche.
Attualmente, in sede di discussione parlamentare, peraltro già avanzata, l’emendamento proposto all’articolo 414 del codice penale, secondo i suoi estensori e sottoscrittori, estenderebbe la sanzione del carcere, con una pena variabile tra l’uno e i cinque anni, oggi già prevista per chi commette apologia di reato o istigazione al crimine, anche a chi dovesse negare l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità. Se così fosse, i nostri codici recepirebbero e introdurrebbero quindi la fattispecie di negazionismo come peculiare delitto da perseguire.
Un affare non solo giuridico
Fin qui, se ci si rifà alla lettera della fredda norma, da obiettare vi sarebbe soprattutto il fatto che essa si esprime in forma frammentata e residuale, ovvero come semplice modifica di un articolo del codice e non all’interno di un più ampio e articolato dispositivo giuridico per la lotta contro l’esaltazione delle brutalità e la perversione del passato. Non di meno vi è chi ricorda come tale disposizione rinvii alla «decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia», assunta dal Consiglio dell’Unione europea nelle due sessioni del 19-20 aprile 2007 e del 28 novembre 2008, alla cui attuazione l’Italia è tenuta in quanto Stato membro. Non è poi meno vero, inoltre, che le prese di posizione che si stanno susseguendo contro l’approvazione della norma, si accompagnano spesso alla perorazione della necessità di intensificare la lotta contro il negazionismo soprattutto sul piano didattico e culturale. Posizione nobile, quest’ultima, quindi sottoscrivibile in linea di principio, ma anch’essa inficiata da molti limiti. Se fosse altrimenti, difficilmente ci incontreremmo con un problema di proporzioni così lievitanti.
Di Shoah se ne è infatti parlato molto. Qualcuno, come Georges Bensoussan, pensa che possa innescarsi addirittura un fenomeno inflattivo, dove alla ripetizione di chi racconta e afferma segue la dissociazione di chi ascolta (e poi rimuove, negando). Cosa pensare, quindi, del quadro che va delineandosi? Siamo dinanzi al confrontarsi di due unanimità fragili: da una parte gli storici, per buona parte contrari; dall’altra i politici, perlopiù tartufescamente favorevoli, a partire da quelli della sinistra. Una prima obiezione di merito rinvia ad un dato concreto, ossia all’applicabilità di una norma che emenda un articolo del codice penale. Non è solo materia per giuristi.
A colpi di scandali
La formulazione dell’oggetto è – infatti – ambigua, lasciando un margine di ampia discrezionalità al giudice e conferendo ai tribunali, nel qual caso, un’impropria funzione, quella di stabilire una qualche forma di verità storica, fosse anche solo in un gioco di riflessi capovolti. Quanto meno per sottrazione, dal momento in cui il primo e i secondi sarebbero chiamati in giudizio a decidere cosa invece storia non è, trattandosi soltanto di bieca falsificazione e quindi di reato. Saremmo, nel qual caso, non in uno spazio di diritto ma in un ambito di discrezionalità assoluta, delegata al magistrato. Ed è qui che la vera opinione rischierebbe di essere per davvero colpita, non essendo invece la negazione da ritenersi tale. Il punto, infatti, non rinvia tanto a ciò che non è giusto dire bensì agli strumenti con i quali è corretto sanzionare non l’errore ma l’orrore, così come soprattutto all’identità di colui al quale è demandata l’identificazione della assai labile differenza che spesso intercorre tra idea, pur nella sua radicalità e inverosimiglianza, e mistificazione.
Tale risultato, peraltro, in una costante perversione dei ruoli, si incontrerebbe e asseconderebbe l’infelice concezione tribunalizia che da tempo l’opinione pubblica va conferendo all’operato dello storico, con notevoli pressioni e tentativi di influenzarne gli esiti del lavoro di ricerca, come se la ricostruzione del passato dovesse ridursi ad una attribuzione di colpe e di torti, magari assolvendo il presente da qualsiasi altra presa di posizione in termini di coscienza critica. Il successo pubblicistico di Gianpaolo Pansa, ad esempio, si inscrive in questa logica corrente, incentivando una piegatura scandalistica, tra le altre, del rapporto con il passato. Non di meno, dietro alla volontà di sanzionare il reato pare non esserci per parte del legislatore la consapevolezza del senso e della dimensione del vero problema, che non rinvia in immediato al negazionismo ideologico (per intenderci quello che si rifà al nazismo, al fascismo e ai vari fondamentalismi politici e identitari variamente assortiti), già perseguibile con gli strumenti che il legislatore ha a disposizione, bensì alla sua traslazione sul web, nella cybersfera, all’interno di un circuito virale che è, per sua natura, incomprimibile, nelle forme come nei contenuti. Poiché il negazionismo, oggi più che mai, è questione che rimanda alla dichiarata dimensione pubblica, volutamente scandalosa e quindi seduttiva, del suo esasperato controfattualismo.
Armamentari antisemiti
Tutti gli armamentari del complottismo, del vecchio antisemitismo – se si parla di Shoah come del conflitto israelo-palestinese, anelli dai più saldati in un’unica, insalubre relazione – ma anche uno scetticismo programmatico, che induce a ritenere che la narrazione storica sia di per sé sempre strumento di «potere», e quindi di occultamento, sono in questo caso interagenti. Si tratta di un vero e proprio campo di significati, falsi e mistificanti, che tuttavia inducono coloro che li fanno propri, proni ad una lettura nel medesimo tempo ingenua, ingessata, pregiudiziosa e semplificatoria dei processi storici così come della realtà quotidiana, a credere di avere finalmente trovato una chiave di comprensione e, quindi, di emancipazione dai «poteri forti». La recente, stucchevole vicenda in cui è incorso Piergiogio Odifreddi, il «matematico impertinente» e facile opinionista, ne è la cartina di tornasole. Una disposizione penale volta a reprimere questi atteggiamenti mentali, di per sé comunque molto problematici, va quindi incontro a un duplice scacco: da una parte la convinzione di potere svuotare l’oceano con il proverbiale cucchiaino e, dall’altra, il rischio, ancora più concreto, di indurre il convincimento che ci sia una versione pubblica del passato che non può essere sottoposta a nessuna riconsiderazione critica.
Da qui al creare dei martiri a buon mercato il passo è decisamente corto. Si tratta esattamente di ciò che i negazionisti di ogni risma vanno cercando di fare, essendo personaggi all’esasperata ricerca di un proscenio pubblico, anche quando si tratta di un tribunale (come, tra le altre, le vicende dei processi contro Zündel e Lipstadt rivelano), nel quale recitare il loro «sacrificio». Con l’aggravante, va ribadito, che la percezione che una parte del pubblico maturerebbe è quella che il condannato è tale non per torto bensì per un’inconfessabile ragione, ossia, come i più amano dire, che la «storia la scrivono i vincitori», ed è essa a costituire per davvero una menzogna. Mi pare quindi che si sia molto distanti da una soluzione accettabile.
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